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La lotta dei contadini indiani: ragioni storiche e attualità

Il 19 novembre di quest’anno il governo Modi ha annunciato che nella sessione parlamentare prevista per fine mese avrebbe cancellato il “pacchetto legislativo” di tre provvedimenti tesi a cambiare l’agricoltura, approvato il settembre dell’anno scorso.

Un annuncio improvviso che però non metteva assolutamente in discussione l’operato dell’esecutivo, ed in cui invitava gli agricoltori indiani a “tornare a case, nei campi e dalle famiglie”.

Ma i lavoratori non hanno smobilitato gli accampamenti in cui dal 26 novembre scorso sostano alla periferia di Delhi.

Aspettano non solo la cancellazione effettiva delle leggi, ma hanno rilanciato la lotta con una serie di richieste articolate, il cui primo giorno di mobilitazione sarà proprio il 26 novembre – ad un anno dall’inizio di questa storica lotta  che coincise con il più grande sciopero del movimento operaio organizzato indiano contro la riforma del mercato del lavoro.

La decisione di Modi sembra più una “tregua elettorale”, dopo le batoste che sta ricevendo il suo partito – il BJP, pilastro della maggioranza governativa – e che con ogni probabilità riceverà nei prossimi mesi in una serie di Stati del Nord dell’India, che sono stati i bastioni della lotta contadina.

Quella di Modi è innanzitutto una sconfitta dell’idea di società che coniuga la politica neo-liberista, un nazionalismo sciovinista e la supremazia induista.

Ashok Dhawale, presidente nazionale dell’All India Kisan Sabha – uno delle associazioni principali dei contadini – intervistato da V. Prashad ha detto chiaramente che le promesse di Modi sono da annoverare al caso classico di “too little, too late”.

Cioè: Troppo poco e troppo tardi.

Troppo poco perché la richiesta del miglioramento delle condizioni degli agricoltori, nel quadro di una regia pubblica di questo settore strategico, sono una rivendicazione che precede quest’ultimo ciclo di lotta ed è stata largamente ignorata, in particolare la creazione di una robusta struttura di Minimum support Price (MSP), cioè di un prezzo minimo  per le derrate alimentari, garantito dallo Stato.

Troppo tardi perché già circa 700 lavoratori agricoli hanno perso la vita in questa lotta.

Insieme a questo vi è la richiesta del proscioglimento delle accuse inventate ai danni dei contadini, in un clima di criminalizzazione parossistica promosso dai media; la presa in carico da parte governativa delle famiglie dei “martiri” periti nella lotta; nonché la cacciata dal governo e l’apertura di una procedura giudiziaria nei confronti di un ministro dell’esecutivo di Modi – resosi colpevole della morte di 4 agricoltori ed un giornalista – investiti recentemente dal politico e dal figlio con la propria macchina durante una protesta pacifica dei contadini.

In questi mesi la lotta dei Kisans non è rifluita anzi…

Il 5 settembre è stato organizzato un riuscitissimo meeting di massa dei contadini – un kisan mahapanchayat – in cui sono emerse le visioni politiche antitetiche dell’India tra una parte del movimento contadino e Modi.

Il 27 settembre è stato organizzato il terzo sciopero generale nel giro di un anno – Bharat Bandh – probabilmente quello riuscito meglio. Il 18 ottobre invece si è svolto un blocco nazionale del traffico ferroviario, Rail Roko.

Non ultimo, per rilanciare la lotta e festeggiare la vittoria, il 22 novembre si è tenuto un altro meeting di massa nella capitale dello Stato indiano dell’Uttar Pradesh, uno dei bastioni della lotta – insieme al Punjab e all’Haryana – regione in cui nei prossimo mese si svolgeranno le elezioni.

La lotta dei farmers ha fatto svanire la divisione dei lavoratori agricoli per vie etnico-confessionali, che era un forte strumento di mobilitazione ideologica dell’Hindutva. Ha catalizzato un ampio fronte di solidarietà anche negli altri strati delle classi subalterne ed ha aperto, anche in Stati relativamente meno toccati dai contestati provvedimenti legislativi, la prospettiva che la lotta possa essere vincente e che quindi l’esecutivo – già in difficoltà per una gestione criminale della pandemia e le ripercussioni legate alla sconfitta occidentale in Afghanistan – possa in generale essere battuto.

Per comprendere la complessità della questione agraria in India e la sua evoluzione storica, a partire dal dominio britannico, passando per l’Indipendenza, per poi giungere alle tendenze (e contro-tendenze) degli ultimi vent’anni, nonché il ruolo di Modi nei suoi due incarichi nel procedere verso la privatizzazione del settore, abbiamo tradotto un dossier dell’Istituto delle Ricerche Sociali Tricontinental, pubblicato il giugno di quest’anno, rimandando alla sua versione originale per l’amplia bibliografia in lingua inglese che qui abbiamo espunto.

Buona Lettura.

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La rivolta dei contadini in India

Tricontinental” – 14 Giugno 2021

L’India è attanagliata dalla seconda ondata della pandemia di COVID-19. I casi confermati giornalieri hanno superato i 400.000 a maggio quando il sistema sanitario è collassato, i letti d’ospedale si sono riempiti e le bombole di ossigeno medico si sono svuotate. Il picco del tasso di mortalità ha creato code ai crematori.

Mentre i riflettori sono puntati su Delhi e altri centri urbani, la morte silenziosamente si diffonde nelle zone rurali del nord dell’India. Le persone stanno morendo di “febbre” e “mancanza di respiro”, i termini di buon senso usati per descrivere i sintomi di COVID-19. Dato che molti non hanno nemmeno fatto il tampone per la malattia, le loro morti non fanno parte dei numeri ufficiali.

Nel settembre 2020, il governo indiano, guidato dal primo ministro Narendra Modi e dal suo partito di estrema destra Bharatiya Janata Party (BJP), ha approvato tre leggi che hanno un impatto diretto sull’agricoltura.

Non c’è stata alcuna consultazione preliminare con le organizzazioni degli agricoltori e nessuna discussione consentita in parlamento. Gli agricoltori percepivano immediatamente che questi tre atti li avrebbero trasformati in semi-servi delle grandi corporations in India. Hanno iniziato un’ondata di proteste che continua mesi dopo, nonostante la pandemia.

Agricoltori e lavoratori agricoli hanno marciato per la prima volta verso Delhi nel novembre 2020. Sono stati bloccati ai suoi confini e così hanno allestito accampamenti di protesta lungo le autostrade nazionali.

Le massicce mobilitazioni sono iniziate nel Punjab, ma presto si sono diffuse in Haryana, Uttar Pradesh, Rajasthan e Madhya Pradesh. Nelle settimane successive alle prime marce, l’ondata di protesta si è espansa in tutta l’India, dal Maharashtra nell’India occidentale al Bihar nell’India orientale e giù nel sud dell’India.

Nella Festa della Repubblica, il 26 gennaio 2021, gli agricoltori e i lavoratori agricoli hanno preso d’assalto Nuova Delhi, la capitale della nazione; hanno chiarito che il giorno per celebrare la Costituzione indiana del 1950 era anche il loro giorno.

I media controllati dalle corporazioni hanno diffamato gli agricoltori, attaccando la loro integrità chiamandoli teppisti, parassiti, terroristi e secessionisti che erano intenti a ostacolare lo sviluppo dell’India.

Gli agricoltori non si sono tirati indietro. Sapevano di rappresentare tutta la loro classe, per la quale questa battaglia è esistenziale: accettare i termini della nuova politica del governo significa sopprimere e distruggere i loro stessi mezzi di sussistenza e il loro stile di vita. Sapevano che le tre leggi agricole avrebbero ceduto ancora più controllo sull’agricoltura indiana ai grandi capitalisti come le famiglie Ambani e Adani.

Una serie di organizzazioni di agricoltori, da All India Kisan Sabha (AIKS) a Bharatiya Kisan Union, ha contattato agricoltori e lavoratori agricoli in tutto il paese per costruire una coalizione a livello nazionale per difendere gli agricoltori e chiedere il ritiro dei tre atti.

Le proteste non sono diminuite, anche se gli agricoltori sono cauti riguardo alla pandemia. Sono determinati a tenere duro, dal momento che il governo del BJP si è rifiutato di fare marcia indietro. Qualunque sia il risultato, non c’è dubbio che l’agricoltura indiana sia in bilico e che il governo Modi sia deciso a spingerla oltre quel limite.

I contadini indiani continuano a lottare per la loro sopravvivenza durante una crisi agraria cronica guidata da tre decenni di riforme neoliberiste. Le tre leggi agricole di Modi decimerebbero quello che resta della vita agraria dei contadini e consegneranno il settore alla produzione controllata dalle imprese e alla catena di approvvigionamento globale.

Cos’è la crisi agraria? È una condizione cronica i cui sintomi sono vari: i capricci dell’agricoltura, compresi i fallimenti delle colture, che si traducono in redditi da bassi a negativi, indebitamento, sottoccupazione, espropriazione e suicidio.

Questo dossier ripercorrerà le cause di questa crisi, che non sono difficili da discernere, ma che risalgono ai giorni del dominio coloniale britannico e ai fallimenti del nuovo stato indiano dopo l’indipendenza nel 1947. Il progresso nell’agricoltura indiana arriva al ritmo di una tartaruga gigante, che si muove lentamente e tiene ostinatamente il suo corso.

Poco sembra essere cambiato negli ultimi settantacinque anni e, anche quando emergono nuovi fattori, quelli vecchi persistono. Per capire perché la tartaruga ora si ferma sull’orlo del precipizio, dobbiamo ripercorrere il suo viaggio.

Il passato

Quando la Compagnia Inglese delle Indie Orientali prese il controllo dell’India nel 1757, iniziò a smantellare le relazioni economiche più vecchie e a riorganizzarle per adattarle al meglio all’estrazione di tributi. Le regioni dell’India sono state trattate differentemente, ma la struttura principale del saccheggio è rimasta la stessa.

La terra fu trasformata in proprietà vendibili che potevano essere alienate dai contadini, e gli intermediari appena coniati (come Zamindars) arrivarono ad addebitare affitti esorbitanti ai contadini. Nel 1770, gli inglesi se ne stavano fermi ad aspettare, mentre il Bengala, la prima parte dell’India a passare sotto il dominio della Compagnia, subiva una carestia che uccise un terzo della popolazione.

Se già la società agricola prima del dominio della Compagnia non era un paradiso, durante la Compagnia e il dominio della Corona (dopo il 1858), divenne un inferno vivente per i contadini.

L’economista Utsa Patnaik ha calcolato che la Compagnia e la Corona britannica ha estratto 45 trilioni di dollari (in termini odierni) dal 1765 al 1938 – in nemmeno due secoli di dominio coloniale. In altre parole, il saccheggio ha eguagliato due decenni dell’attuale prodotto interno lordo (PIL) dell’India di  2,5 trilioni di dollari.

A causa di questa grave emorragia di risorse, anche buone annate di raccolto fornivano a malapena abbastanza cibo per sopravvivere. Negli anni di magra – quando la stagione dei monsoni era scarsa – gli agricoltori riuscivano a malapena a racimolare abbastanza soldi per pagare le tasse prima di cadere in mesi di fame totale.

I contadini non potevano risparmiare denaro o cibo negli anni buoni perché la tassazione impediva qualsiasi risparmio. Questo li rendeva estremamente vulnerabili quando il raccolto era scarso. Quando arrivavano la siccità o i magri raccolti, come accade inevitabilmente, gli agricoltori si trovavano senza alcun cuscinetto che potesse smorzare l’impatto della carestia.

Tra il 1850 e il 1899, i contadini indiani subirono ventiquattro carestie, una ogni due anni. Queste carestie uccisero milioni di persone: durante la carestia del 1876-79, morirono 10,3 milioni di persone; durante la carestia del 1896-1902, morirono 19 milioni di persone.

William Digby, un giornalista che riferì sulla carestia di Madras del 1876, scrisse nel 1901 “Se uno storico dovesse rappresentare a cinquant’anni di distanza il ruolo svolto dall’Impero britannico nel diciannovesimo secolo, non potrebbe far altro che raccontare la morte inutile di milioni di indiani come monumento principale e più famigerato dell’Impero“.

Il ricordo di queste carestie – in particolare la carestia del Bengala del 1943 – assicurò l’abolizione delle tasse sui contadini da parte del nuovo stato indiano, che eliminò i continui rischi di carestia e permise ai contadini di usare i loro redditi per investire nella loro terra per migliorare la produzione alimentare.

Durante la siccità, il governo si assicurò che i contadini ricevessero cibo per prevenire l’inizio della carestia. La fame non fu eliminata, ma la carestia certamente lo fu.

Tuttavia, lo stato indiano, controllato dalla grande borghesia e dai proprietari terrieri, preservò le gerarchie economiche agrarie che gli inglesi avevano lasciato loro in eredità.

A differenza dell’URSS e della Repubblica popolare cinese, l’India indipendente non ha abbattuto la sua scure sulle gerarchie socio-economiche dei villaggi. Sotto la pressione del movimento di sinistra, che era forte in alcune regioni dell’India, il governo indiano attuò le riforme agrarie in modo tiepido; la ridistribuzione della terra fu irrisoria e i modesti massimali sulle proprietà terriere non furono implementati a causa della presa che i proprietari terrieri avevano sul sistema politico nelle loro regioni.

La legislazione sulla locazione in diversi stati ha avuto un impatto, dal momento che i contadini in alcuni stati hanno ottenuto titoli sulla terra che coltivavano. La concentrazione di possedimenti terrieri rimase elevata e lo sfruttamento neofeudale dei piccoli contadini e dei lavoratori agricoli senza terra, principalmente delle caste oppresse, continuò.

Piuttosto che modernizzare il settore agricolo, la classe dominante indiana ha condotto l’industrializzazione guidata dal settore pubblico, compresa la costruzione di enormi dighe e progetti di irrigazione. Ma, intorno al 1950, l’industrializzazione dell’India ha dovuto fare i conti con una economia agricola non riformata.

Il settore industriale in crescita aveva bisogno di materie prime agricole e la forza lavoro industriale in espansione aveva aumentato la domanda di cibo. Di conseguenza, la scarsità di cibo era diventata frequente, il che causava l’inflazione del prezzo dei cereali alimentari; questa pressione inflazionistica ha rallentato l’industrializzazione.

Le riserve valutarie dell’India erano quasi esaurite, il che limitava la capacità del governo di importare cereali alimentari.

Nel 1965, gli Stati Uniti erano diventati il principale esportatore di cereali alimentari in India, quindi il governo indiano implorò gli Stati Uniti nel 1956 di fornire cereali alimentari secondo la legge pubblica (PL) 480.

Nell’ambito di questo schema, l’India importava cereali alimentari, principalmente grano, e pagava gli Stati Uniti in valuta indiana, il che impediva all’India di indebitarsi ulteriormente in una crisi dei cambi. Gli Stati Uniti hanno usato lo schema PL-480 per fare pressione sul governo indiano per modificare le sue politiche, in particolare la politica estera non allineata dell’India.

Un diplomatico statunitense sostenne che i cereali inviati in India erano di scarsa qualità, utili per l’alimentazione del pollame ma non per il consumo umano.

A causa delle guerre dell’India con la Cina (1962) e il Pakistan (1965), le riserve valutarie diminuirono drasticamente. Una siccità nel 1965 ridusse la produzione alimentare del venti per cento nell’anno agricolo 1965-66.

Politici e diplomatici indiani sostennero la necessità di più spedizioni di grano da Washington, ma gli Stati Uniti inviarono meno del necessario per creare pressioni e per imporre due cambiamenti politici.

In primo luogo, intendevano smantellare il modello di sviluppo economico basato sulla riduzione dell’importazione e aprire il paese agli investimenti e al commercio stranieri; in secondo luogo, intendevano indebolire i legami con l’URSS, oltre alla soppressione delle critiche alla guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam.

Quando il primo ministro Indira Gandhi si recò a Washington nel 1966 per incontrare il presidente degli Stati Uniti, Lyndon Johnson, accettò le condizioni degli Stati Uniti e della Banca Mondiale per rimuovere i freni alle importazioni, togliere la licenza a una serie di industrie strategiche, consentire gli investimenti statunitensi nella produzione di fertilizzanti e svalutare la rupia indiana del cinquantasette per cento.

Di conseguenza, l’inflazione montò enormemente e l’economia entrò in una crisi più profonda. Il governo indiano credeva che gli Stati Uniti avrebbero inviato cereali alimentari e che la Banca Mondiale avrebbe accettato un pacchetto monetario, ma né gli Stati Uniti né la Banca Mondiale tennero fede alla loro parte dell’accordo.

Questa fu un’umiliazione per il governo indiano, un riconoscimento che rimaneva dipendente dal sistema imperialista.

Durante questa crisi, ci si rese conto anche nei circoli d’élite che, per un paese grande come l’India, nutrire la sua gente con le importazioni era assolutamente indispensabile.

Si voleva limitare l’intervento imperialista nella sovranità indiana; permettere la sicurezza alimentare di milioni di indiani, dipendenti dai capricci dell’offerta e dei prezzi dei mercati internazionali. Questa consapevolezza costrinse il governo indiano a cercare opzioni interne per raggiungere la sicurezza alimentare e uscire dalla crisi.

Due percorsi per uscire dalla crisi

Il governo indiano aveva due strade per uscire dalla crisi:

  1. Ridistribuzione del territorio. Il governo indiano avrebbe potuto attuare riforme agrarie attraverso la ridistribuzione della terra, il che avrebbe significato consegnare la terra alle famiglie contadine senza terra. La concentrazione della terra era diventata un ostacolo all’aumento della produttività agricola. Le relazioni neo-feudali significavano che i proprietari terrieri potevano estrarre affitti elevati dai loro inquilini e rubare manodopera gratuita dagli inquilini per il loro uso personale. I proprietari hanno utilizzato il reddito da locazione della terra che hanno affittato per il risparmio di denaro piuttosto che investire nella loro terra e nella tecnologia. Gli inquilini che affittavano la terra non usavano il proprio reddito per migliorarlo e, oltre all’alto affitto, mangiavano comunque la maggior parte del loro reddito in eccesso. La mancanza di investimenti in agricoltura ha impedito alti tassi di crescita. La ridistribuzione della terra, insieme agli investimenti pubblici nelle infrastrutture agricole, avrebbe aumentato sia l’equità socio-economica che la crescita economica. La crescita sarebbe stata seguita da un aumento della produttività e da un aumento dei consumi da parte dei contadini, che avrebbero stimolato l’industrializzazione rurale.

  1. La Rivoluzione Verde. Nei primi anni ‘60, l’agronomo Norman Borlaug sviluppò varietà nane di grano ad alto rendimento, che richiedevano fertilizzanti chimici e irrigazione su scala industriale. Questa nuova tecnologia agricola di varietà ad alto rendimento era molto più produttiva rispetto alle tecnologie indigene esistenti. Quindi, la “Rivoluzione Verde” è stata una scelta propizia per la classe dominante indiana, che sentiva che ciò avrebbe aumentato la produttività agricola senza una riforma agraria. In effetti, le riforme agrarie e la tecnologia della Rivoluzione Verde non devono essere state viste come una scelta esclusiva; la combinazione di entrambi, usata con giudizio, avrebbe potuto creare alti tassi di crescita agricola a beneficio dei contadini. Lo Stato indiano, tuttavia, scelse di evitare di riformare i rapporti territoriali e si concentrò invece sulla Rivoluzione Verde.

Nel 1961, il dodici per cento delle famiglie contadine possedeva più del sessanta per cento dei terreni coltivati nei villaggi indiani. Poiché l’obiettivo del governo era quello di aumentare la produzione agricola per promuovere l’autosufficienza di cereali alimentari nell’interesse dell’industrializzazione, aveva senso implementare la tecnologia della Rivoluzione Verde a beneficio dei grandi agricoltori capitalisti.

Migliorare il sostentamento delle masse rurali e raggiungere l’equità socio-economica non erano le considerazioni principali. Si presumeva che i benefici si sarebbero irradiati anche sul resto delle famiglie rurali con l’aumento della produttività e con la crescita dei redditi dei ricchi agricoltori.

Per aiutare gli agricoltori, lo Stato potenziò le istituzioni di agronomia. Ha istituito il National Agricultural Research System insieme al Consiglio indiano della ricerca agricola (istituito nel 1929) al suo apice insieme a una vasta rete di istituti di ricerca specializzati, università agricole, centri di estensione e stazioni di ricerca sul campo.

Queste istituzioni fornirono supporto tecnico per l’uso delle tecnologie della Rivoluzione Verde. Le varietà ad alto rendimento richiedevano un’abbondanza di acqua e l’applicazione di prodotti agrochimici.

Per questo motivo, la tecnologia della Rivoluzione Verde poteva essere implementata solo nelle regioni con sistemi di irrigazione dei canali, come il Punjab, l’Haryana, l’Uttar Pradesh occidentale e le pianure costiere dell’India meridionale. La tecnologia della Rivoluzione Verde non venne utilizzata nel settanta per cento delle terre coltivate dell’India, dove i villaggi continuarono a praticare l’agricoltura di sussistenza.

Il governo fece investimenti sostanziali nell’irrigazione di superficie per espandere la tecnologia della Rivoluzione Verde al resto del paese. Tra il 1951 e il 1991, l’area irrigata dai canali raddoppiò da 8,3 milioni di ettari a 17,5 milioni di ettari.

Il credito bancario agli agricoltori li aiutò ad aumentare l’irrigazione perforando pozzi tubolari e di perforazione. Tra il 1961 e il 1991, l’area sotto l’irrigazione dei pozzi tubolari si espanse da quasi nessuno a 14 milioni di ettari.

Con l’espansione dell’irrigazione dei canali, anche i piccoli e marginali agricoltori iniziarono a utilizzare la combinazione di semi ad alto rendimento e fertilizzanti chimici della tecnologia Green Revolution.

Era chiaro alle istituzioni statali incaricate dello sviluppo agricolo che gli agricoltori non potevano essere lasciati a investire da soli nell’aumento della produttività. Gli investimenti necessari in settori chiave – come l’irrigazione, il controllo delle inondazioni e lo sviluppo del territorio e per creare infrastrutture di mercato – erano considerevoli e andavano oltre le capacità dei singoli agricoltori; potevano essere eseguiti solo dallo Stato.

Inoltre, l’agricoltura arriva con i capricci della natura (inondazioni, siccità, grandinate e parassiti), ulteriormente aggravati dalle incertezze imposte dal sistema capitalista. I prezzi variano, con i piccoli agricoltori in particolare incapaci di contrattare per abbassare i prezzi dei fattori di produzione e incapaci di controllare i prezzi di mercato dei loro prodotti.

Il sostegno statale era necessario per accedere al credito, sovvenzionare i fattori produttivi, creare un’infrastruttura di mercato e mantenere un sistema di prezzi remunerativi per la produzione finale. Assumendosi parte del rischio attraverso i suoi meccanismi istituzionali, lo Stato ha avuto la capacità di rendere praticabile l’agricoltura.

Man mano che queste istituzioni si sviluppavano nel 1960, si sono incorporate ai processi agricoli e nella vita rurale. Mentre questi strumenti istituzionali favorivano i grandi agricoltori, tuttavia ancoravano l’intera economia rurale e fornivano un certo sollievo anche ai lavoratori agricoli senza terra.

È una testimonianza della resilienza di queste istituzioni che nessun governo è stato in grado di distruggere completamente da quando l’economia indiana ha iniziato a essere liberalizzata dopo il 1991. Le tre leggi agricole di Modi sono un tentativo diretto di sradicare questi accordi istituzionali.

La lotta degli agricoltori, quindi, è una lotta politica non solo per proteggere questi strumenti istituzionali, ma anche per preservare il loro stile di vita.

Le rigidità della classe

Non molto tempo dopo l’inizio della Rivoluzione Verde, il Ministero degli Interni indiano si preoccupava giustamente delle conseguenze sociali e politiche dell’aggravarsi delle disuguaglianze nelle zone rurali. Erano preoccupati, come ha affermato il ministro degli Interni Y.B. Chavan, che la Rivoluzione Verde si sarebbe probabilmente trasformata in una Rivoluzione Rossa.

Il rapporto The Causes and Nature of Current Agrarian Tensions (1969), prodotto dal suo ministero, presentava una lucida valutazione del problema da un punto di vista borghese.

In primo luogo, [le nuove strategie della Rivoluzione Verde] si sono ampiamente basate su una struttura sociale agraria antiquata. Gli interessi di quelle che potremmo chiamare le classi agricole non sono stati convergenti su un insieme di obiettivi sociali ed economici comunemente accettati.

In secondo luogo, le nuove tecnologie e strategie, essendo state orientate a obiettivi di produzione in secondo piano rispetto agli imperativi sociali, hanno determinato una situazione in cui si sono verificati evidenti elementi di disparità, instabilità e disordini con la possibilità di un aumento della tensione.

È proprio questo tipo di politica che ha intensificato le divisioni di classe rurali e ha creato il tipo di lavoro che il ministero dell’Interno ha preferito evitare, vale a dire affrontare le insurrezioni rurali.

La “molecola complessa” del villaggio indiano, scrissero gli autori dei testi del rapporto del ministero degli interni del 1969, potrebbe trovarsi con una classe contadina organizzata e “potrebbe finire in un’esplosione”. Ciò doveva essere impedito demoralizzando i contadini attraverso trappole del debito e rafforzando il potere dei contadini ricchi sulle campagne.

I contadini più ricchi erano in una posizione migliore per accedere ai meccanismi istituzionali predisposti dallo Stato. Il sistema è stato istituito per fornire più credito bancario e maggiori vantaggi di prezzi minimi di sostegno e fertilizzanti sovvenzionati a coloro che avevano maggiori proprietà terriere.

Poiché il governo era più interessato ad aumentare la produttività agricola che a migliorare le disuguaglianze dell’India rurale, le politiche finirono per avvantaggiare i ricchi contadini.

Dal momento che i ricchi agricoltori hanno messo all’angolo il credito bancario del governo, i piccoli agricoltori marginali hanno dovuto continuare a chiedere prestiti agli usurai.

Secondo l’ultima Situation Assessment Survey of Agricultural Households, gli agricoltori ricchi hanno ottenuto 80% dei loro prestiti da fonti istituzionali, mentre gli agricoltori marginali hanno ottenuto solo il 50% dei loro prestiti da queste fonti.

Per la metà del loro credito, gli agricoltori marginali sono andati a fonti non istituzionali, come prestatori di denaro che praticavano tassi di interesse elevati a scopo di sfruttamento; questo ha messo l’agricoltore marginale in una trappola del debito. La situazione rimane desolante per i lavoratori agricoli, che ricevono 88% del loro credito dagli usurai.

Molti agricoltori senza terra e marginali ottengono l’accesso alla terra diventando inquilini e affittando la terra da altre famiglie, spesso da proprietari assenti. I dati ufficiali sottovalutano l’estensione dell’affitto in India.

I sondaggi mostrano che i fittavoli costituiscono una parte significativa delle famiglie di coltivatori. In alcune regioni costiere dell’Andhra Pradesh, per esempio, dal 70 all’80% degli agricoltori sono fittavoli; in Bihar, il 26% dei coltivatori sono fittavoli. I contadini marginali spesso accrescono le loro proprietà stipulando contratti di locazione in base ai quali sfruttano il lavoro familiare.

I contratti di locazione sono per lo più accordi verbali informali poiché i proprietari, che sono proprietari assenti, vogliono eludere le leggi che conferiscono diritti significativi ai fittavoli in relazione alla terra che coltivano.

Poiché non hanno titolo di proprietà, i contadini senza terra – come i contadini marginali – non hanno accesso al sostegno istituzionale, compresi i prestiti per il raccolto di prestiti a lungo termine. Per accedere al credito, questi fittavoli si rivolgono a proprietari terrieri, contadini ricchi, usurai e commercianti per ottenere prestiti.

I tassi di interesse sono alti e gli inquilini sono spesso costretti a fornire rendimenti non finanziari, come la manodopera gratuita. Quando i raccolti falliscono, gli agricoltori affondano nella trappola del debito. Dopo aver pagato l’affitto, i redditi dei fittavoli piccoli e marginali sono così bassi che qualsiasi shock, comprese le spese sanitarie o un raccolto fallito, li costringe a prendere prestiti informali, il che approfondisce ulteriormente la presa del creditore locale sulla loro terra e lavoro.

In assenza di un contratto di locazione, i fittavoli non possono vendere nel sistema MSP; invece, sono spesso costretti a vendere i loro raccolti nei loro campi ai commercianti a prezzi molto inferiori all’MSP che riceverebbero nei cantieri regolamentati.

Questi problemi esistevano prima che l’intero sistema del credito e dei prezzi iniziasse a essere compromesso durante il periodo di liberalizzazione iniziato nel 1991.

Liberalizzazione e crisi agraria

Nel 1990-91, il governo indiano ha dovuto affrontare una grave crisi valutaria. Le riserve in valuta estera sono scese a 1,2 miliardi di dollari, che erano sufficienti solo per pagare due settimane di importazioni. Il governo indiano ha trasportato in aereo quarantasette tonnellate d’oro a Londra come garanzia contro un prestito a breve termine di 400 milioni di dollari dalla Bank of London. L’India si è rivolta all’FMI.

Nel novembre 1991, il ministro delle finanze Manmohan Singh disse: “I negoziati con il FMI sono stati difficili perché il mondo è cambiato. L’India non è immune. L’India deve sopravvivere e prosperare in un mondo che non possiamo cambiare a nostra immagine. Le relazioni economiche sono relazioni di potere. Non stiamo vivendo in un ‘morality play’”.

Come hanno sottolineato alcuni economisti, l’India aveva ancora altre opzioni per uscire dalla crisi in cui si è trovata. Invece il governo indiano ha scelto di accettare prestiti dal FMI e dalla Banca Mondiale con pesanti condizioni.

In questa situazione, l’India è stata costretta ad attuare riforme neoliberali nell’ambito di un programma di “aggiustamento strutturale”, che ha avuto il sostegno entusiasta sia del capitale metropolitano che di quello indiano.

Questo programma di riforma significava che la politica del governo avrebbe cessato il suo tentativo di proteggere il popolo indiano dal peggior impatto del capitalismo non regolamentato.

Il governo ha iniziato a deregolamentare il settore bancario fornendo licenze a nuove banche private, che poi hanno gareggiato contro le banche del settore pubblico. Ciò ha avuto un impatto negativo sul sistema agrario.

A quel tempo, i portavoce della liberalizzazione sostenevano – spesso con scarse prove – che il settore bancario aveva sofferto a causa dell’imposizione di quote per il credito agricolo, del tetto imposto ai tassi di interesse bancari per l’agricoltura e della creazione di una rete di sportelli bancari.

Le banche del settore pubblico, trovando difficoltà a competere con le nuove banche private, hanno ridotto le loro divisioni rurali. Il credito destinato all’agricoltura è andato altrove, anche al settore finanziario in lenta crescita. Il credito agricolo si è ridotto e gli agricoltori hanno fatto ricorso ancora una volta a fonti di credito informali di sfruttamento.

Il 1° gennaio 1995 l’India ha aderito all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC o WTO), che ha comportato l’allentamento delle restrizioni quantitative sulle importazioni agricole.

Gli agricoltori indiani – molti dei quali lavoravano su pochi acri di terra – sono stati costretti a competere con le multinazionali dell’agroalimentare e con gli agricoltori dei paesi industrializzati avanzati che operavano su migliaia di acri e ricevevano enormi sussidi dai loro governi.

Non solo il governo ha aperto la porta alle importazioni agricole, ma ha anche schiacciato gli agricoltori indiani tagliando i sussidi. I prezzi dei fertilizzanti sono aumentati, il che ha significato un aumento dei costi di coltivazione.

Massicce campagne di pubbliche relazioni che promettevano rendimenti e profitti più elevati da parte delle aziende del settore privato hanno portato gli agricoltori ad acquistare semi e pesticidi costosi, il che ha fatto aumentare i costi di coltivazione con un corrispondente aumento dei raccolti.

Ciò era evidente nella coltivazione del cotone nelle regioni semi-aride dell’altopiano del Deccan; gli agricoltori erano stati incoraggiati a coltivare cotone per l’esportazione, ma la regolamentazione lassista dell’agro-business ha portato alla vendita di semi spuri e all’uso eccessivo di pesticidi, che non proteggevano gli agricoltori dai fallimenti consecutivi dei raccolti causati dagli attacchi dei parassiti.

Il crollo dei prezzi internazionali del cotone negli anni ha innescato una grave crisi agraria in questa regione con un conseguente aumento delle morti per suicidio degli agricoltori. Gli investimenti pubblici nelle aree rurali sono diminuiti drasticamente.

Dopo il 1991, non c’è stata espansione dell’irrigazione superficiale. L’area sotto i canali è diminuita di un milione di acri a causa della mancanza di riparazioni e della mancanza di dissodamento. Di conseguenza, i redditi degli agricoltori sono cresciuti solo dell’1,96 percento annuo tra il 1993-94 e il 2004-05.

L’aumento dei costi, i prezzi bassi sul mercato mondiale e i fallimenti dei raccolti hanno portato a un periodo di crisi agraria prolungata.

Dal 1991, il governo ha ridotto i sussidi alimentari al consumo, incidendo negativamente sulla sicurezza alimentare di milioni di indiani. Tra il 1995 e il 2001, il numero di persone denutrite in India è aumentato di quasi venti milioni.

Lo Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (2003) ha mostrato che, degli 842 milioni di persone denutrite nel mondo a quel tempo, 214 milioni, ovvero un quarto intero, vivevano in India. Almeno un quarto di milione di agricoltori, scoraggiati dai debiti finanziari, si sono suicidati in questo stesso decennio.

La crisi agraria non è universale: colpisce principalmente i piccoli agricoltori emarginati. I ricchi agricoltori – che si sono diversificati nell’orticoltura, nell’acquacoltura, ecc. – sono stati in grado di difendersi dalla piena portata della crisi sfruttando i mercati internazionali in settori chiave. Avevano i mezzi per fare investimenti e la capacità di assorbire le perdite negli anni difficili.

La liberalizzazione non è stata così scortese con i grandi agricoltori come lo è stata con il resto della società agraria.

Dopo il 1991, quando le conseguenze negative della liberalizzazione iniziarono a colpire i lavoratori del campo e gli operai delle fabbriche, i disoccupati e gli abitanti degli sobborghi, la reazione arrivò rapidamente.

C’era il dolore dei suicidi dei contadini; le proteste di massa contro l’invasione del suolo pubblico, dal furto dei vigneti di betel a Posco Steel in Orissa; e la difesa dei terreni agricoli contro il furto da parte di una Zona Economica Speciale nel villaggio di Bhatta Parsaul (Noida, UP).

Ogni stato dell’India ha sperimentato disordini poiché gli standard di vita di molti si sono deteriorati e le prospettive di lavoro sono rimaste stagnanti. Vite dilaniate per creare valore per la borghesia industriale e agricola e per le multinazionali e le imprese nazionali ad essa legate.

Il martello del “progresso” colpisce duramente gli Adivasi (comunità indigene), le cui terre sono il punto zero per lo sfruttamento, e i Dalit (le caste oppresse), il cui lavoro nei campi è ora guidato da pressioni inimmaginabili.

La brutalità della vita quotidiana nell’India di oggi non si traduce facilmente in attività politica. L’insicurezza sociale, il lavoro contingente e pericoloso, le comunità frammentate, le migrazioni a lunga distanza e i lunghi spostamenti quotidiani rendono più difficile la possibilità di un’azione politica, ma la rendono anche imperativa.

La tregua

Nel 2004, la United Progressive Alliance (UPA), una coalizione guidata dal Partito del Congresso, ha vinto le elezioni parlamentari e ha formato il governo. L’UPA è stato sostenuto in parlamento dai partiti di sinistra, che hanno chiesto che ci fosse una rottura con l’agenda di riforma neoliberista e che il governo sostenesse i coltivatori.

Questi accordi sono stati definiti nel Common Minimum Program, il documento che delinea gli obiettivi del governo di coalizione. Uno dei suoi sei principi di base invitava esplicitamente il governo a “migliorare il benessere degli agricoltori, della manodopera agricola e dei lavoratori, in particolare quelli nel settore non organizzato, e assicurare un futuro sicuro alle loro famiglie sotto ogni aspetto“.

Il credito all’agricoltura è stato migliorato, così come gli investimenti pubblici nelle aree rurali. Nel 2005, il governo ha introdotto un programma di garanzia dell’occupazione rurale (The Mahatma Gandhi National Rural Employment Guarantee Act o MGNREGA) che ha promesso 100 giorni di lavoro a tutti i lavoratori agricoli, ha fornito fondi per il miglioramento delle infrastrutture nei villaggi e ha aumentato le falde acquifere in zone soggette a siccità attraverso lo sviluppo di bacini idrografici.

Questi programmi hanno portato all’espansione agricola, in particolare nella produzione di colture commerciali come il cotone. Gli agricoltori si sono diversificati in colture orticole e pollame per soddisfare le esigenze della classe media urbana.

Ha aiutato che i prezzi agricoli globali fossero alti, che il PIL indiano crescesse del 7-8 % all’anno e che gli investimenti pubblici e privati ​​aumentassero. Tra il 2004-05 e il 2011-12, i redditi degli agricoltori sono aumentati del 7,6% annuo rispetto all’1,96% degli anni precedenti.

Nonostante le pressioni della sinistra, in particolare nel suo secondo mandato (2009-2014) quando non dipendeva dal sostegno della sinistra, il governo dell’UPA ha mosso un’agenda neoliberista in molte arene, favorendo la vivace classe capitalista indiana.

Durante il suo secondo mandato, l’UPA ha proceduto alla deregolamentazione del settore dei fertilizzanti, alla liberalizzazione degli affitti dei terreni, all’apertura dell’agricoltura al commercio di futures e all’avvio del processo di riforma del mercato agricolo.

In altre parole, nel suo secondo mandato, l’UPA ha avviato il processo che il primo ministro Narendra Modi avrebbe accelerato.

Il grande capitale indiano, in stretto legame con la classe politica, ha approfittato delle politiche di privatizzazione per impadronirsi delle risorse pubbliche (compresi i redditizi beni del settore pubblico), acquisire vasti appezzamenti di terreno spostando le comunità di villaggi e foreste, controllare le risorse minerarie della nazione e minare banche del settore attraverso una serie di schemi di frode e mancato pagamento.

Questo processo – che include la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio e le politiche deflazionistiche – è ciò che Prabhat Patnaik chiama “accumulazione per invasione”, la spinta del capitale a impadronirsi di aree della vita umana con il pieno sostegno dello Stato.

Dal 2008 in poi, l’industriale Mukesh Ambani ha fatto la sua apparizione annuale nella lista dei miliardari di Forbes; nel 2008, il suo patrimonio netto era di 20,8 miliardi di dollari e presto sarebbe diventato l’uomo più ricco del mondo al di fuori dell’Europa e del Nord America.

Quando il governo UPA è stato rieletto per un secondo mandato nel 2009 e poteva governare senza il sostegno della sinistra, i mercati azionari si sono mobilitati per sollevare la capitalizzazione di mercato delle società di Ambani di 12 milioni di dollari in cinque giorni.

La rovina di Modi

Nel 2011, i più grandi capitalisti in India, tra cui Mukesh Ambani, hanno partecipato a un conclave chiamato Vibrant Gujarat, dove hanno elogiato il Primo Ministro dello Stato Narendra Modi, hanno accantonato l’accusa contro di lui di aver perpetrato il genocidio dei musulmani nel 2002 e hanno effettivamente approvato la pretesa di Modi di diventare il primo ministro.

Desiderosi di ulteriori riforme neoliberiste, questi capitalisti hanno fatto affidamento su Modi come strumento per la “liberalizzazione del mercato del lavoro” (cioè, il taglio dei sindacati) e per la “riforma agraria“. Tre anni dopo, il Bharatiya Janata Party di Modi vinse le elezioni parlamentari e divenne primo ministro dell’India.

Il governo di Modi è stato accolto con un crollo dei prezzi internazionali di colture da esportazione come il cotone, due anni di siccità e un rallentamento generale dei tassi di crescita agricola.

Piuttosto che affrontare la crisi che si è sviluppata, il governo di Modi ha inflitto all’economia altri tre disastri economici:

  1. Demonetizzazione (2016). Ritirando senza preavviso oltre l’ottanta per cento della moneta dalla circolazione, Modi ha costretto la domanda a ridursi, anche per i prodotti agricoli. Gli agricoltori hanno dovuto buttare via latte e verdure, così come hanno trovato inutile il denaro nelle loro mani.

  2. Imposta su beni e servizi o GST (2017). L’attuazione della GST ha ridotto i piccoli margini di profitto dei piccoli commercianti e delle attività di vendita al dettaglio. Ciò ha avuto ripercussioni sui mercati agricoli, che hanno visto una maggiore presenza di imprese monopolistiche in luogo del più diversificato settore dei piccoli commercianti.

  3. COVID-19 (2020-21). Il governo del BJP non è riuscito ad affrontare la malattia e la sua rapida diffusione. Un improvviso blocco nel marzo 2020 ha costretto milioni di lavoratori migranti ad abbandonare il lavoro nelle città e a tornare alle loro case nei villaggi e nelle città più piccole. Quando il tasso di infezione e mortalità è aumentato, la domanda di prodotti agricoli è diminuita; questo ha intensificato la crisi per gli agricoltori che non avevano una rete di sicurezza.

All’inizio della crisi COVID-19, il governo ha approfittato della situazione per presentare in parlamento tre progetti di legge sull’agricoltura nel giugno 2020, che sono stati approvati e firmati entro settembre 2020 senza dibattito parlamentare.

Queste tre leggi aprono il settore agricolo all’ingresso delle grandi aziende agroalimentari. Il governo ha affermato che queste leggi avrebbero consentito agli agricoltori di scoprire i migliori prezzi sul mercato, quando in realtà avrebbero messo i piccoli agricoltori contro le aziende agricole, che controllano le informazioni di mercato e godono dei vantaggi della scala.

Le tre leggi indeboliscono le regolamentazioni limitate che esistono nel mercato agricolo. Questi regolamenti sono stati strangolati dal 1991, ma ora vengono messi in cassa.

  1. Legge sul commercio e sul commercio (promozione e facilitazione) dei prodotti agricoli. Questa legge impone che il commercio al di fuori del mercato regolamentato non sarà tassato, il che significa che i commercianti abbandoneranno i mercati regolamentati per quelli non regolamentati. Negli stati in cui esistono cantieri di mercato regolamentato – come Haryana e Punjab – questo ha già avuto un impatto immediato.

  2. Accordo sugli agricoltori (empowerment e protezione) sull’assicurazione dei prezzi e sulla legge sui servizi agricoli. Questa legge consente alle aziende agroalimentari di entrare in trattativa diretta con gli agricoltori per una quantità specifica di una determinata coltura a un prezzo specifico. Non c’è nessun regolamento o limite al contratto. I contratti possono essere orali. La legge esclude inoltre qualsiasi controversia relativa a questi contratti dalla giurisdizione dei tribunali civili, lasciando gli agricoltori alla mercé di imprese e burocrati.

  3. Legge sulle merci essenziali (emendamento). Attraverso questa legge, il governo ha rimosso gli elementi chiave (cereali, legumi, patate e cipolle) dall’elenco dei beni di prima necessità che, secondo l’Essential Commodities Act (1955), non dovevano essere accumulati o speculati. La legge del 1955 è stata progettata per prevenire l’inflazione dei prezzi alimentari; l’Atto di modifica facilita l’ingresso delle imprese nel commercio di cereali e consente lo stoccaggio di prodotti agricoli, accelerando la speculazione del mercato.

Gli agricoltori capirono subito che queste tre leggi significavano l’acquisizione dell’agricoltura da parte delle grandi imprese. Gli agricoltori faticano già a ottenere una quota adeguata del valore del loro raccolto: i coltivatori di risaie ottengono meno della metà di quello che paga il consumatore e i coltivatori di cipolle e patate ottengono il trentacinque per cento del prezzo al dettaglio.

Una volta che l’agro-business prenderà il sopravvento, è inevitabile che gli agricoltori vedano diminuire ulteriormente la loro quota.

Inoltre, gli agricoltori sanno che una volta chiusi i mercati regolamentati, il governo ridurrà l’approvvigionamento di grano e potrebbe ritirare del tutto la MSP. Il governo ha affermato che invece di sovvenzionare i fertilizzanti, fornirà agli agricoltori trasferimenti di denaro.

Gli agricoltori affermano che ci sono buone probabilità che questo importo di trasferimento non riesca a tenere il passo con l’inflazione e che alla fine venga fermato. Una volta tagliati i sussidi, gli agricoltori sperimenteranno un aumento dei costi dei fattori di produzione e il ritiro della MSP li lascerà ad affrontare mercati agricoli volatili senza sostegno.

La giustificazione di queste leggi è che sovvenzionare fertilizzanti e procurarsi beni essenziali ha portato all’uso eccessivo di fertilizzanti, degradando così la salute del suolo, e all’uso eccessivo delle risorse idriche sotterranee (in particolare attraverso l’espansione di risone e grano).

Non c’è motivo di credere che le grandi imprese si preoccupino della salute del suolo o dell’uso eccessivo di acqua. La migliore soluzione a questi problemi non è smantellare le istituzioni, ma riformarle.

Ad esempio, gli agricoltori hanno da tempo chiesto al governo di ampliare l’elenco delle colture per l’approvvigionamento, aumentando così la quantità di colture diverse da riso e grano. Ciò stabilirebbe macchinari di approvvigionamento al di fuori delle aree colpite dalla Rivoluzione Verde e garantirebbe un modello di coltivazione più equilibrato. Migliorando i servizi di estensione per fornire assistenza tecnica, l’utilizzo degli input potrebbe essere ottimizzato.

Affidarsi alle aziende agrochimiche per consigli su fertilizzanti e pesticidi non ha ottimizzato l’uso di queste sostanze chimiche. Il rafforzamento dei servizi pubblici di estensione contribuirebbe notevolmente a ridurre l’uso non necessario di sostanze chimiche aggressive.

È chiaro che il problema nell’agricoltura indiana non è un eccessivo sostegno istituzionale, ma un dispiegamento inadeguato e diseguale delle istituzioni, nonché la riluttanza di queste istituzioni ad affrontare le disuguaglianze intrinseche della società di villaggio.

Non ci sono prove che le aziende agroalimentari svilupperanno infrastrutture, miglioreranno i mercati agricoli o forniranno supporto tecnico agli agricoltori. Tutto questo è chiaro agli agricoltori.

Le proteste degli agricoltori, iniziate nell’ottobre 2020, sono un segno della chiarezza con cui gli agricoltori hanno reagito alla crisi agraria e alle tre leggi che non faranno che aggravare la crisi.

Nessun tentativo del governo, compreso il tentativo di incitare gli agricoltori lungo linee religiose, è riuscito a spezzare l’unità dei contadini. C’è una nuova generazione che ha imparato a resistere ed è pronta a portare la sua battaglia in tutta l’India.

Il professor Sarbjot Singh Behl, che insegna alla Guru Nanak Dev University (Amritsar, Punjab), ha scritto una poesia, Tale of a Farmer (tradotta da Jeena Singh), che cattura lo spirito combattivo dei contadini:

Fino, seminare, arare e mietere

Sono le promesse che mantengo?

Alla buona terra sotto i miei piedi

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

Il terreno che ho innaffiato con il mio sudore

Tempeste che ho resistito sul mio petto

Freddo pungente o caldo estivo

Non potrei mai far ritirare il mio spirito

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

Ciò che la natura non poteva, il sovrano lo fece

Metti l’effigie del mio spirito

Come uno spaventapasseri nei campi di abbondanza

Per la sua allegria e scherno

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

In passato, i miei campi erano sparsi

Dove i cieli con la terra si sono incontrati

Ma ahimè! Ora sono solo rimasto

Con un paio di acri per pagare il mio debito

Così è la vita…

Fino a quando non respirerò il mio ultimo respiro

Il mio raccolto oro, bianco e verde

Porto sul mercato mille speranze

Speranze deluse e mani vuote

Sono i doni delle mie terre

Così è la vita… finché la morte non acconsente

Per mettermi fuori da questa miseria

I bambini piagnucolano, non nutriti, illetterati

I loro sogni ora giacciono sparsi

Sotto il tetto, solo detriti

Corpi spezzati, anime spezzate

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

Tutte le gemme, i gioielli spariti,

Stomaci vuoti, anime abbandonate

Ma ho delle promesse da mantenere

Per sedare la fame e l’avidità

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

Il raccolto d’oro che mieto

Nessun commerciante vuole mai mantenere

Debito cavalcato, in difficoltà così profonda

Il mio cuore di piombo riesce a malapena a battere

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

Può esserci un’altra soluzione?

O è cappio o rivoluzione

Falce e falce non sono più strumenti

Ma ora sono davvero armi

Così è la vita…

Fino all’ultimo respiro questo corpo respira

(versione originale dell’articolo: https://thetricontinental.org/dossier-41-india-agriculture/)

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