L’estensione e la tenuta delle manifestazioni di protesta in Iran, assegnano a questo ciclo di mobilitazioni caratteristiche diverse da quelle avvenute nelle fasi precedenti.
Paola Rivetti ci ricorda che i lavoratori e le lavoratici, gli operai e le operaie iraniane si sono mobilitati ripetutamente negli ultimi due decenni, “protestando vigorosamente contro le politiche economiche dei governi riformisti di Mohammad Khatami (1997-2005), conservatori di Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013) e moderati/riformisti di Hassan Rouhani (2013-) ugualmente, contro datori di lavoro che non rispettano contratti e scadenze salariali e creando anche, in alcuni casi, organizzazioni sindacali più o meno formali che sono sopravvissute a repressione ed arresti”.
Occhio a chiamarli riformisti
Inoltre, nei decenni scorsi c’erano state ondate di manifestazione più direttamente politiche lette in Occidente come sostegno ai candidati o ai presidenti ritenuti “riformisti” ma, come abbiamo visto nelle puntate precedenti, questa categoria che i mass media occidentale piegano alle proprie categorie, appare del tutto fuorviante nello scontro politico in Iran.
Ad esempio l’obiettivo dell’ex presidente Rouhani sostituito nel 2021 dal più radicale Raisi, era quello di aprire e liberalizzare l’economia del paese, favorendo lo sviluppo del settore privato, abolendo i sussidi (eredità delle politiche sociali di Ahmadinejad rese possibili da anni di prezzi elevati del petrolio), spezzare i monopoli delle entità statali o incluse quelle di proprietà dei pasdaran.
E’ necessario sapere che il coinvolgimento dei pasdaran nell’economia iraniana, negli anni è andato aumentando, fino a conformare una gigantesca galassia di società controllate e che spaziano dal settore energetico a quello delle infrastrutture. Si stima che i pasdaran, tramite società proprie o affiliate, controllino circa un terzo dell’economia del paese.
Come già segnalato, i conservatori non radicali, sono infatti favorevoli all’iniziativa economica privata e più vicini invece alla classe dei bazaari, la vecchia classe mercantile, un settore che con le sanzioni ha cominciato a vedersi ridurre seriamente i propri introiti.
Le pesanti conseguenze economiche delle sanzioni occidentali, alle quali si sono aggiunte le conseguenze della pandemia da coronavirus nel 2020, hanno inceppato la marcia liberista di Rouhani, bloccando appunto le cosiddette “riforme economiche” in senso neoliberale e contribuendo ad aumentare la rabbia sociale, esplosa sotto forma di proteste nel periodo tra il novembre 2019 e il luglio 2020, ovvero durante la presidenza del “riformista” Rouhani.
In una intervista con Paola Rivetti, l’economista iraniano Mohammad Maljoo, che vive e lavora a Theheran, ha parlato di come il mercato del lavoro iraniano, dalla fine degli anni Ottanta in poi, sia stato interessato da interventi governativi volti a ridimensionare il settore pubblico e trasformare radicalmente il mercato del lavoro.
L’introduzione di agenzie interinali aveva lo scopo di tramutare la massa di impiegati pubblici (che godevano di buone condizioni di lavoro) in lavoratori del settore privato.
Questo è avvenuto anche adottando misure di austerity che hanno, per esempio, costretto settori del pubblico impiego a diventare economicamente auto-sostenibili, ovvero a sopravvivere senza il trasferimento di fondi da parte del governo tramite legge finanziaria, provocando, tra le altre cose, privatizzazioni, blocchi delle assunzioni e riduzione del personale.
Le disuguaglianze sociali in Iran
Le tensioni sociali più forti si sono manifestate prima nei settori sociali più poveri che si sono visti privare dei sussidi statali aumentando le disuguaglianze interne, in particolare quelle tra le città (dove è più consistente la cosiddetta classe media) e le aree rurali e periferiche, incluse quelle “etniche” come le zone dove vivono i Baluci e i Curdi.
Agisce infatti una atavica differenza tra i popoli non farsi dell’Iran che vivono appunto nelle zone di confine: i Baluci con il Pakistan, i Curdi con l’Iraq, la Turchia e la Siria. Aree di confine dunque naturalmente più “porose” di quelle centrali o metropolitane e nelle quali le infiltrazioni di agenti esterni sono più semplici.
In pratica tutti gli elementi di disuguaglianza sociale e territoriale attutiti nella fase precedente da una maggiore presenza dello Stato nell’economia, hanno visto riaffacciarsi anche istanze di tipo etnico, mai sopite ma certo neanche dirompenti.
La classe media iraniana era cresciuta molto negli anni in cui la Repubblica Islamica, anche in cambio di una limitazione delle libertà politiche, aveva assicurato alla popolazione crescita economica e opportunità sociali. Un po’ come in Venezuela, una forte presenza dello Stato nell’economia e un’alta rendita petrolifera, avevano consentito significativi passi in avanti dell’Iran sul piano dello sviluppo interno.
La classe media iraniana aveva visto crescere il suo peso sociale a rappresentare quasi il 60% della popolazione. Ma, come rileva un rapporto dello statunitense Atlantic Council, da quando sono cominciate le sanzioni occidentali – e parliamo del 2011 – la classe media ha cominciato a regredire per almeno il 10% scendendo al 48,8% nel 2019. Al giorno d’oggi, prosegue l’Atlantic Council, può definirsi classe media in Iran solo il 35% della popolazione.
Oggi, in base ai dati forniti dal Ministero del Welfare dell’Iran, il 10% delle famiglie più ricche iraniane beneficia del 31% del reddito nazionale lordo, mentre il 10% delle famiglie più povere ne possiede solo il 2%.
Tra l’altro, va rilevato che l’economia iraniana registra un grado di diversificazione maggiore rispetto a quelle degli altri paesi produttori di petrolio del Medio Oriente.
Secondo una dettagliata analisi di Annalisa Pereghella (Ispi) “La dipendenza dalla rendita petrolifera è elevata ma non è assoluta. Infatti, nonostante le sanzioni occidentali sulle esportazioni del petrolio iraniano abbiano provocato sofferenze economiche e sociali al paese, queste non avevano portato l’economia al collasso. Ma un paese che sopravvive non può certo prosperare né utilizzare al meglio il potenziale tecnologico e produttivo raggiunto”.
La nuova ondata di proteste in Iran
Se a queste contraddizioni sociali – alcune delle quali anche conseguenza della ingerenza e delle sanzioni di Usa e Ue – aggiungiamo anche la insopportabilità delle rigide regole pubbliche religiose, è inevitabile che prima o poi si innescasse il corto circuito che ha fatto esplodere l’ultima ondata di proteste che vedono convergere sia richieste politiche di maggiori libertà civili e fine dell’opprimente controllo religioso (soprattutto da parte della popolazione femminile), sia richieste economiche su salari migliori e sussidi contro la povertà.
Secondo una analisi di Med Or (Fondazione Leonardo) appare “sicuramente prematuro, se non del tutto azzardato, affermare che siamo davanti a un movimento rivoluzionario”, così come sembra imprudente asserire che queste proteste possano innescare radicali cambiamenti politici all’interno della Repubblica Islamica.
Per l’analista di Med Or Giorgio Perletta mancano infatti alcuni elementi essenziali affinché questo possa verificarsi, come l’adesione massiccia e trasversale dei commercianti (i cosiddetti bazarì) e dei lavoratori, sempre più precari e inabili nel creare una mobilitazione comune. Mancano infine le defezioni all’interno delle forze armate (decisive per la riuscita di un processo rivoluzionario, ndr) così come manca un gruppo politico che possa canalizzare le varie richieste e farsi promotore di una transizione politica.
Le ingerenze straniere
Che sull’Iran agiscano pesantemente ingerenze esterne, in particolare da Stati Uniti, Israele e Francia, è fin troppo evidente. Ma proprio tenendo conto della strutturazione politica e sociale della Repubblica Islamica, ci sembra che in Iran, più che i sostenitori di un difficile regime change, siano all’opera gli agenti della strategia del caos.
Ma questo fattore, che ci rimanda all’indubbio ruolo internazionale e regionale dell’Iran di aperto contrasto alle ingerenze di Usa e Israele nella regione, non può impedirci di vedere i movimenti sociali, le contraddizioni e le aspirazioni di cambiamento che agiscono dentro quella società, ricordandoci e ricordando a tutti che l’Iran non è affatto un paese arretrato e ad esso occorre guardare con il dovuto rispetto.
Vedi le puntate precedenti:
Iran. Cause e conseguenze dello scontro sociale in corso
Iran. Nello scontro tra conservatori e radicali, le proteste sono una variabile indipendente
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