Sabato 23 settembre, la Francia è scesa in piazza per la “Marcia contro le violenze della polizia, il razzismo sistemico e per le libertà civili”, sulla base di un appello unitario sottoscritto da oltre 130 organizzazioni politiche, sindacali, associazioni, comitati dei quartieri popolari e collettivi di vittime della violenza poliziesca.
“L’omicidio di Nahel, ucciso a bruciapelo da un agente di polizia il 27 giugno 2023 a Nanterre, ha evidenziato ancora una volta ciò che deve finire: il razzismo sistemico, la violenza della polizia e le disuguaglianze sociali aggravate dalla politica di Macron.
Una politica neoliberista imposta da metodi autoritari, leggi securitarie e una dottrina di polizia criticata anche dai più alti organismi internazionali. Una politica regressiva che offre un terreno fertile all’estrema destra e calpesta sempre più le nostre libertà civili, il nostro modello sociale e il nostro futuro di fronte al collasso ecologico”, si legge nel comunicato.
È in questo cotesto di marginalizzazione sociale e discriminazione razziale che la violenza istituzionale e della polizia si innestano come un meccanismo pervasivo di controllo e repressione di fronte alla all’impoverimento e alla mancanza di servizi pubblici. Le ragioni della rivolta dei quartieri popolari dello scorso giugno possono essere comprese solo in questo contesto generale.
“Le vittime in prima linea di queste scelte politiche sono i residenti, in particolare i giovani, dei quartieri popolari e dei territori d’oltremare, che stanno sopportando il peso del peggioramento delle disuguaglianze sociali in un contesto economico caratterizzato da inflazione, aumento degli affitti e dei prezzi dell’energia e politiche urbanistiche brutali”, scrivono le organizzazioni firmatarie dell’appello.
80mila persone, di cui 15mila a Parigi, hanno preso parte ad oltre un centinaio di presidi e manifestazioni in varia forma in tutto l’Esagono per rispondere alla grave “crisi democratica, sociale e politica”.
Per i media mainstream la “notizia” da riportare è quella di un’auto della polizia presa di mira da un lancio di pietre e della vetrina di una banca distrutta lungo il percorso della manifestazione parigina. Eppure, tanto basta al ministro degli Interni Gérald Darmanin per dichiarare su Twitter che “La ‘manifestazione’ di Parigi ha visto una violenza inaccettabile contro la polizia. Ecco dove porta l’odio anti-polizia”.
Ma la realtà dei fatti è ben diversa. A confermarlo è in grande lavoro di inchiesta condotto dal giornale indipendente online “Basta!”, il quale ha ricostruito e reso disponibile un database sul numero di morti a seguito di un intervento delle forze dell’ordine, recensendo 861 casi tra il 1977 e il 2022.
Contrariamente da quanto affermato da Darmanin a seguito dell’uccisione di Nahel, dal 2020 si è assistito in Francia ad un aumento del numero di interventi letali da parte della polizia e della gendarmeria nazionale: 40 nel 2020, 52 nel 2021 e 39 nel 2022.
Il numero di persone uccise dal fuoco della polizia è aumentato considerevolmente, con 18 e 26 persone uccise rispettivamente nel 2021 e nel 2022, più del doppio rispetto al decennio precedente.
Ad essere sotto accusa da parte delle organizzazioni politiche e sociali è la Legge n. 2017-258 del 28 febbraio 2017 sulla sicurezza pubblica, approvata sotto il governo socialista di Bernard Cazeneuve e che rimette alla valutazione discrezionale della polizia il ricorso all’uso di armi da fuoco all’articolo L435-1, in particolare nel caso di persone alla guida di veicoli che si rifiutino di fermarsi.
Tra le rivendicazioni lanciate dall’appello unitario, vi è appunto “l’abrogazione della legge del 2017 sull’allentamento delle norme sull’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine” e l’esigenza di “una riforma profonda della polizia, delle sue tecniche di intervento e del suo armamento”.
Riferendosi alla Marcia di questo sabato, il prefetto di polizia di Parigi, Laurent Nuñez, ha addirittura asserito che “partecipare a una manifestazione di questo tipo significa sottoscrivere una serie di slogan che danneggiano gli agenti di polizia” e che giudica come “proposte con connotazioni ingiuriose e oltraggiose”.
Il famoso slogan “police partout, justice nulle part” è una constatazione della realtà che vivono migliaia di famiglie nelle banlieues e che, per le giovani generazioni, risuona come un grido di rabbia e di riscatto contro una “sentenza di condanna” già pronunciata sulla base del nome, del colore della pelle, del quartiere o degli abiti indosso.
Alle discriminazioni e alle violenze della polizia, si accompagna inoltre un inasprimento della repressione anche sul piano giudiziario. I tribunali francesi hanno emesso ben 1.278 condanne, di cui quasi 750 a pene detentive con una durata media di otto mesi, per le proteste e gli scontri verificatisi in diverse città dopo l’uccisione di Nahel lo scorso giugno.
Mentre, dall’altro lato, viene garantita un’impunità quasi totale alle forze dell’ordine, tanto più che l’Inspection Générale de la Police Nationale (IGPN), ovvero l’organo predisposto a “sorvegliare la polizia”, è in realtà sottoposto alla gerarchia della Polizia nazionale, la quale a sua volta dipende dal Ministero degli Interni, e quindi al potere politico.
Organizzarsi nei quartieri popolari, nelle scuole e nelle università, nei posti di lavoro contro la repressione è il primo passo per lottare contro questo sistema di sfruttamento che produce precarizzazione ed impoverimento generale, condannando in particolare le giovani generazioni a subire gli effetti nefasti della sua crisi e la brutalità del suo “ordine” sociale.
Chi semina miseria raccoglie rabbia.
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