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Rappresentanza sul lavoro, l’apartheid sindacale non è la soluzione

«Solo una minima parte dei contratti censiti risulta essere siglato dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative».

Queste le parole pronunciate il 14 gennaio da Tiziano Treu, presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), in audizione davanti alla XI Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera sulle proposte di legge relative a rappresentanza sindacale ed efficacia dei ccnl.

Secondo il presidente del Cnel, nella nota depositata alla Camera, «molti accordi nazionali portano la firma di sindacati minori, poco noti, che presentano sempre più spesso caratteristiche di multisettorialità. Ciò rende tali accordi  applicabili trasversalmente e indistintamente a più ambiti produttivi».

La rappresentanza nei luoghi di lavoro è una questione sul piatto da molti anni, che ha conosciuto però un punto di svolta il 10 gennaio del 2014, quando Cgil, Cisl, Uil e Confindustria hanno firmato un accordo – “Testo unico sulla rappresentanza”, da qui in avanti TU – che prevede la validità erga omnes (per tutti i lavoratori e le lavoratrici) di un ccnl in un certo settore produttivo se firmato dai sindacati più rappresentativi, e cioè, nella maggior parte dei casi, dai tre appena nominati.

La proliferazione dei ccnl nel mercato del lavoro italiano non è certo una novità. Come infatti informa il Cnel, al giorno dell’audizione (14 gennaio 2020) risultano depositati 834 contratti relativi al settore privato e 19 quello pubblico, mentre nel giugno del 2013 erano “appena” 580 in totale, con un aumento dunque di oltre il 40 per cento in poco più di 6 anni, su un numero di per sé già consistente.

Se questo è indubbiamente una questione che merita la massima attenzione, tuttavia la soluzione non può essere quella prospettata nel TU. Infatti, sempre il Cnel riporta che «nonostante il numero elevato di contratti nazionali vigenti, la maggior parte delle imprese tende ad applicarne un numero ristretto. In tutti i settori contrattuali (tranne che nel settore poligrafici e spettacolo) i primi 3 ccnl maggiormente applicati coprono almeno il 70% dei lavoratori. Nel  settore distribuzione, terziario e servizi (dove risultano vigenti 227 ccnl) i primi 3 maggiormente applicati coprono l’81% dei lavoratori. Nel settore meccanico risultano vigenti 37 ccnl, ma i primi 3 maggiormente applicati coprono addirittura il 98% dei lavoratori. Nel complesso 39 ccnl su un totale di 834 (si tratta dei primi 3 ccnl maggiormente applicati in ciascuno dei 13 settori contrattuali) si applicano all’82% dei lavoratori».

In altre parole, lo spettro della proliferazione caotica dei contratti nazionali che darebbe un volto pericolosamente eterogeneo alla tutele dei lavoratori è, nei fatti, decisamente ridimensionato. Il problema semmai risiede nella logica che ha mosso le politiche sul lavoro (in Italia come nel resto dei paesi dell’Ue) nell’ultimo trentennio, ossia quella di rendere possibile l’utilizzo, da parte del Capitale, di forza-lavoro esclusivamente in base alle proprie esigenze produttive. Da qui, la messa in soffitta del concetto di stabilità per quanto riguarda il rapporto di lavoro a favore della sua la flessibilizzazione per meglio rispondere alle necessità dell’impresa (molto meno a quelle dei lavoratori), anche dei contratti permanenti, operazione che vede nel Jobs Act l’atto definitivo.

Se così stanno le cose, allora per i tre confederali la questione di fondo è, in realtà, come fare in modo che la posizione dominante, raggiunta con continui accordi col padronato, non sia scalfita dai quei sindacati oggi minoritari che però, di fronte all’attacco subito dal “mondo del lavoro”, propongono un percorso di lotta, di conflitto, di contrapposizione di interessi, rispendendo al mittente le richieste concertative e neocorporative.

I contratti non possono avere validità generale se firmati solo da alcuni, senza peraltro che venga affrontata la questione dell’approvazione vincolante dal parte dei lavoratori, sempre più esclusi ( “fisicamente” parlando) dai tavoli delle trattative quando a questi siedono i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil.

È senza dubbio di primaria importanza, come affermato ancora da Treu, «avere criteri di misurazione della rappresentanza, passo fondamentale per contrastare dumping contrattuale e salari bassi», ma l’apartheid sindacale tramite l’esclusione delle sigle più conflittuali, di cui il TU si fa massimo portavoce, non è la soluzione.

D’altronde, Cgil, Cisl e Uil cosa propongono per la sicurezza e la salute dei lavoratori dell’Ilva? Cosa dendono del misero rinnovo del pubblico impiego? Come si comportano di fronte alla normale dialettica (democratica) sindacale? A chi credono quando si tratta di fermare una nave che rifornisce di armi un paese in guerra? E inoltre, cosa dicono a proposito del salario minimo?

«Sappiamo che il numero dei lavoratori sotto soglia 9 euro è di circa 5 milioni», ha affermato Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, di fronte alla stessa Commissione. Vogliamo veramente impedire che qualcuno possa prendere le parti di quei 5 milioni di lavoratori?

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