A conferma che il ministro Brunetta non capisce ma detesta il mondo in cui vive, il graduale rientro di lavoratrici e lavoratori in ufficio dopo i lunghi mesi di emergenza pandemica, non indica un declino dello smart working. Al contrario, al termine della pandemia le aziende e le amministrazioni pubbliche prevedono un aumento degli smart worker rispetto ai numeri registrati a settembre, quando si contavano complessivamente ben 1,77 milioni di lavoratori da remoto nelle grandi imprese, 630mila nelle PMI, 810mila nelle microimprese e 860mila nella pubblica amministrazione.
A documentarlo è una ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, secondo il quale si prevede che saranno 4,38 milioni i lavoratori che opereranno almeno in parte da remoto, di cui 2,03 milioni nelle grandi imprese, 700mila delle PMI, 970mila nelle microimprese e 680mila nella pubblica amministrazione (l’unica quindi a diminuirne l’utilizzo in base ai diktat di Brunetta, che non conosce la differenza tra back e front office ndr).
Secondo l’analisi del Politecnico, lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, dove aumenteranno sia i progetti strutturati sia quelli informali; nel 62% delle Pubbliche amministrazioni, in cui prevalgono le iniziative strutturate ma anche molta incertezza sul futuro e nel 35% delle PMI, fra cui prevale un approccio informale ed è forte la tendenza a tornare indietro.
Le modalità di lavoro in smart working torneranno probabilmente ad essere un ibrido nel tentativo di stabilire un equilibrio fra lavoro in sede e a distanza: nelle grandi imprese sarà possibile lavorare a distanza mediamente per tre giorni a settimana, nelle pubbliche amministrazioni si scende a due giorni.
Dietro la scelta di proseguire con lo smart working ci sono sicuramente i livelli di maggiore produttività ottenuti da aziende e amministrazioni pubbliche.
Ma la combinazione tra lavoro da remoto e pandemia ha avuto anche conseguenze negative. Secondo lo studio del Politecnico il 28% di lavoratrici e lavoratori dichiara di aver sofferto di tecnostress ((cioè gli impatti negativi a livello comportamentale o psicologico causati dall’uso delle tecnologie), il 17% di overworking (aver dedicato un’elevata quantità di tempo alle attività lavorative trascurando momenti di riposo).
Diversamente per il 39% è migliorato il proprio equilibrio tra vita e lavoro, il 38% si sente più efficiente nello svolgimento della propria mansione e il 35% più efficace, secondo il 32% è cresciuta la fiducia fra manager e collaboratori e per il 31% la comunicazione fra colleghi.
Tra i benefici viene indicata anche una maggiore sostenibilità sociale e ambientale. Secondo le grandi imprese, la sua applicazione su larga scala favorisce l’inclusione delle persone che vivono lontano dalla sede di lavoro (81%), dei genitori (79%) e di chi si prende cura di anziani e disabili (63%).
Ma per le aziende e le amministrazioni significa anche una riduzione dei costi per gli spazi di lavoro (dagli affitti dei locali alle spese per energia e climatizzazione, etc.).
Infine, secondo il Politecnico di Milano, la possibilità di lavorare in media 2,5 giorni a settimana da casa porterà a risparmi di tempo e risorse per gli spostamenti: 123 ore l’anno e 1.450 euro in meno per ogni lavoratore che usa l’automobile per recarsi in ufficio.
In termini di sostenibilità ambientale, infine, si può stimare che l’applicazione dello smart working ai livelli previsti dopo la pandemia potrebbe portare a minori emissioni per circa 1,8 milioni di tonnellate di CO2 ogni anno. Ma questo dato va messo in controluce rispetto all’accresciuto ed evidente ricorso ai mezzi di trasporto privati contestuamente alla diminuzione dell’uso quelli pubblici, proprio a causa del loro affollamento e dunque dell’inesistenza di quelle misure di distanziamento e precauzione imposti dal governo in altri settori.
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