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Istat, disoccupati e statistici improvvisati

e dal poco interpretabile titolo «Disoccupazione reale al 19,3%. Ecco come l’Istat nasconde i dati». E quindi ha inviato una lettera al giornale per contestare nel merito le affermazioni dell’autore che, indubbiamente, giustificavano cotanto titolo.

Il merito è semplice, la materia scientifica molto meno.
Fumagalli – non un profano, ma un docente “Incaricato di Economia Politica, presso il Corso di Laurea in Comunicazione Multimediale “ all’Università di Pavia, ideologicamente “negriano” – aveva scritto una intemerata contro i criteri statistici e le classificazioni usate dall’Istat:

“Il nostro dato sulla disoccupazione è infatti di gran lunga sottostimato. Il suo calcolo si basa sulla classica tripartizione tra «inattivi», «occupati» e «disoccupati» che appare del tutto inadeguata a cogliere l’attuale complessità del mercato del lavoro. La nozione di «occupato» e di «inattivo», infatti, a fronte dei processi di precarizzazione e scomposizione delle figure lavorative, non è più univoca sia dal punto di vista giuridico che dal punto di vista economico-sociale. L’emergere di una molteplice gamma di contratti atipici con diverse forme di «para-occupazione», pongono la necessità di ridefinire il confine tra «occupazione» e «disoccupazione», così come tra «attivo» e «inattivo»”.

Per poi (quasi) concludere:

“La popolazione realmente disoccupata è invece pari alla somma dei disoccupati veri e propri e degli scoraggiati: oltre 5,5 milioni di individui. Ne consegue che il tasso effettivo di disoccupazione è pari al 19,3%, praticamente quasi il doppio di quello ufficialmente dichiarato. Se poi, si dovessero calcolare come disoccupati anche i lavoratori in Cassa Integrazione, il tasso effettivo di disoccupazione va oltre il 20%, in linea – non a caso – con quello di Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda, i paesi sottoposti alle più dure politiche di sacrifici”… Ne consegue che i dati pubblicati nell’articolo sono corretti.

Diciamo la verità: alcune di queste considerazioni sono sensate, e chiamano in causa i criteri stabiliti a livello Eurostat. Ma chi – come noi, tra gli altri – considera quei criteri “troppo restrittivi” rispetto alla realtà sociale, deve necessariamente porre la questione in termini “istituzionali” (se ci passate il termine), non banalmente populistici.
Cosa vogliamo dire? Che quei criteri – occupati, disoccupati, inattivi, scoraggiati – usati anche dall’Istat nel loro insieme sono il “termometro” convenzionalmente usato per misurare la “febbre” della disoccupazione. Usati da tutti gli istituti di statistica dell’Unione europea, non solo dall’Istat.
Quel “termometro” è insomma discutibile – e deve esser discusso – come ogni altro strumento tecnico di rilevazione, per essere cambiato a livello europeo (negli Usa, per esempio, i criteri sono differenti e ancor più distorsivi della realtà occupazionale). Ma quel “termometro” è anche l’unico strumento “uguale per tutti”, per ora.
Il tasso di disoccupazione italiano (10,8%) è insomma l’esatto corrispondente del 20% circa degli spagnoli, cui vanno poi rispettivamente sommate tutte le altre figure (inattivi, scoraggiati, «sottoccupati part time») che di fatto si trovano in condizioni molto simili alla disoccupazione, pur senza essere – con quei criteri statistici – “uguali”.
Alla fine della fiera dei calcoli, la somma delle diverse figure dà percentuali molto più vicine tra i diversi paesi sotto i governi della Troika? È possibile. Ma in questo caso tutti i tassi di disoccupazione europei sono sottostimati, non solo quello italiano. Non è insomma all’Istat che deve esser mosso il rimprovero scientifico, perché neppure volendo potrebbe usare un “termometro” diverso da quello standard.
Per sviluppare l’analogia, se misuriamo la febbre di 27 persone (o di 27 stati), siamo obbligati ad adoperare lo stesso “modello” per tutti, altrimenti ci troveremmo davanti un numero diverso tra due persone che – di fatto – hanno la stessa temperatura, ma cui è stato applicato un “termometro” differente. Il medico diventerebbe matto e non potrebbe neppure pensare a una cura sensata.
L’atteggiamento di Fumagalli ricorda insomma quello della massaia che, di fronte al tasso ufficiale di inflazione, borbotta che i prezzi che si trova davanti al mercato sono certamente più alti. Ha ragione, naturalmente. Ma non tutti i prezzi che lei conosce sono compresi nel “paniere Istat”; che infatti ha elaborato anche un indice chiamato “carrello della spesa” che comprende soltanto i generi acquistati più di frequente. E che dà ovviamente un tasso di inflazione più alto di quello “ufficiale” o “complessivo”.
Per concludere. La statistica applicata ai comportamenti umani non è davvero una scienza esatta, anche se fa grande uso dei numeri. I suoi criteri sono approssimazioni, via via sempre più sofisticate e attendibili col passare del tempo. Un po’ come avviene per la meteorologia. Elabora strumenti di misurazione – “termometri” – sempre ampiamente suscettibili di miglioramento.
Ma è qui che si deve applicare la critica, non all’atto della misurazione e tantomeno all’”intenzionalità” del misuratore. Molti dei ricercatori Istat sono infatti spesso compagni, molto spesso precari, sempre persone altamente consapevoli della contraddittorietà del proprio mestiere e delle mille trappole disseminate lungo il loro cammino. A nessuno – nemmeno a dei rivoluzionari molto più determinati del prof. Fumagalli – è consentito “rompere il termometro” per proporre, al suo posto, strumenti “ad hoc”; ossia variabili a seconda di quel che si vuole sostenere, elastici, non standard.
A portare il caos nella scienza ci pensa già il capitale, asservendo al suo volere decine di migliaia di scienziati (basta guardare la “commissione grandi rischi” nel caso de L’Aquila). Non è il caso di aggiungere confusione anche a quel poco di chiarezza ancora rintracciabile.
Esser ripresi ufficialmente dall’Istat… A Galapagos non sarebbe mai successo!

La lettera dell’Istat e la risposta di Fumagalli, su “il manifesto” di oggi.

Quanti sono i disoccupati?
Nell’articolo «Disoccupazione reale al 19,3%. Ecco come l’Istat nasconde i dati», l’autore Andrea Fumagalli accusa l’Istat di sottostimare il dato italiano sulla disoccupazione perché utilizzerebbe definizioni di condizioni lavorative «del tutto inadeguate a cogliere l’attuale complessità del mercato del lavoro». In realtà, le cose non stanno cosi. Infatti: l’Istat, seguendo le indicazioni di Eurostat, da un anno produce e diffonde alcuni indicatori complementari al tasso di disoccupazione, l’ultima release è di aprile 2012 disponibile all’indirizzo www.istat.it/it/archivio/59542. Questi indicatori, proprio come ricorda Fumagalli, evidenziano che fra gli inattivi sono incluse anche le cosiddette «forze di lavoro potenziali», cioè: coloro che non cercano attivamente un lavoro ma sono disponibili a lavorare e le persone alla ricerca di lavoro che non sono subito disponibili a lavorare. Come riportato nella release già menzionata, se sommiamo le «forze di lavoro potenziali» ai disoccupati si ottengono le persone impiegabili nel processo produttivo, che infatti ammontano a circa cinque milioni. C’è poi un terzo indicatore, quello dei «sottoccupati part time», ovvero coloro che lavorano con un orario ridotto ma dichiarano che avrebbero voluto e potuto lavorare più ore. Riguardo al criterio con il quale le persone vengono classificate occupate, disoccupate o inattive, si ricorda che l’indagine sulle forze di lavoro è stabilita da un Regolamento europeo che impone agli istituti di statistica nazionali l’uso di concetti e definizioni comuni per garantire la comparabilità dei dati nel tempo e nello spazio. Quelle di «disoccupazione» e di «inattività» sono, quindi, definizioni adottate in tutti i paesi europei. Non è pertanto possibile pensare che in Italia il tasso di disoccupazione sia sottostimato rispetto a quanto registrato in Spagna, Grecia e negli altri paesi con un tasso di disoccupazione superiore al 20%, perché tutti seguono le stesse regole di calcolo!
Patrizia Cacioli, Direttore della Comunicazione

L’Istat riconosce l’esistenza dei cosiddetti «scoraggiati» che vanno a costituire «le forze lavoro potenzialmente attive». I dati pubblicati nell’aprile 2012 (www.istat.it/it/archivio/59542confermano che il bacino di coloro che sono disponibili a lavorare ma non hanno trovato un’occupazione ammontano «a circa 5 milioni». E’ obbligata dalle disposizioni Eurostat. Tenendo conto di ciò, il valore reale del tasso di disoccupazione ammonterebbe a circa il 20%, come sostenuto nell’articolo. A conferma di ciò, nell’ultimo Rapporto sul mercato del lavoro 2011-12 del Cnel, (settembre 2012: pag. 175,) tale dato arriva addirittura al 25,7%.
Sempre secondo la release dell’Istat dell’aprile 2012 (Prospetto 2), si osserva che la quota degli «scoraggiati» (di fatto, disoccupati) è pari all’11,3% delle forze lavoro, mentre in Spagna è del 4,2% e in Grecia dell’1,3% (la media europea è del 3,6%). Ne consegue che i dati pubblicati nell’articolo sono corretti. Ciò che stupisce è che l’Istat, anche nell’ultimo rapporto «Prospettive per l’economia italiana» (
www.istat.it/it/archivio/73832) pubblicato lo scorso 5 novembre, si ostina a non considerare gli «scoraggiati» come una componente rilevante del tasso di occupazione «ufficiale». Con questa mancanza, il tasso «ufficiale» di disoccupazione è effettivamente sottostimato.
Andrea Fumagalli

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