Borsa in caduta libera e moneta che si svaluta ben al di là delle intenzioni ribassiste della Banca centrale. Che succede alla Cina?
Anche stamattina la borsa di Shangai ha aperto perdendo quasi il 5%, dopo che già il giorno prima aveva lasciato sul terreno il 6%. Stesse prestazioni per l’altra piazza finanziaria interna, quella di Shenzen, mentre quella internazionale – Hong Kong – perde appena lo 0,89%. Poi le perdite si sono ridotte anche nelle prime due, intorno al 2%, grazie agli interventi della Banca centrale che ha assicurato sostegno all’economia nella misura che sarà necessaria.
La differenza nelle prestazioni tra le varie piazze finanziarie fornisce già una parte della spiegazione. Shangai e Shenzen sono borse quasi soltanto nazionali, in cui gli investitori sono quasi soltanto cinesi. E nel corso dell’ultimo anno e mezzo anche nel Celeste Impero si era diffusa a livello di massa la tentazione di fare i soldi con i soldi, investendo in borsa anche i pochi risparmi. L’aumento degli indici di quasi il 150% in questo breve periodo era già il segnale di una bolla finanziaria destinata ad esplodere.
Ma l’andamento di Hong Kong spiega anche che questa prevista esplosione non riguarda più di tanto i legami con i mercati internazionali; insomma, che è destinata ad aver conseguenze quasi soltanto nazionali, soprattutto con la classica “tosatura” del cosiddetto “parco buoi” (i cittadini che abboccano alle offerte di investimento quando i prezzi sono già troppo alti, allettati da rendimenti destinati a scomparire prestissimo, restando alla fine col cerino in mano e i risparmi bruciati). Quel -30% in tre settimane pesa soprattutto su di loro.
Ma anche la moneta non sta andando bene affatto, o perlomeno non nella misura voluta dalla autorità cinesi. Questa mattina la Banca centrale ha segnato il fixing (il “punto medio” rispetto al quale è consentita un’oscillazione massima del 2%) dello yuan a 6,3963 contro il dollaro, poco sopra il valore del giorno prima. Ma l’oscillazione è stata invece tutta verso il basso, fino a superare di poco il 6,4. Segno che una quota rilevante di capitali stranieri sta lasciando il paese, convinta di non poter ripetere qui le “prestazioni” raggiunte negli ultimi 25 anni.
In parte era anche l’obiettivo delle autorità statali, che hanno voluto giocare di anticipo rispetto al ciclo atteso (vedi anche https://contropiano.org/documenti/item/32339-in-questa-guerra-la-finanza-conta-piu-delle-portaerei), ma la misura in cui sta avvenendo supera probabilmente le attese.
Questa dinamica che indebolisce la “locomotiva manifatturiera” del mondo trascina con sé anche i prezzi delle materie prime, e quindi le entrate finanziarie dei paesi produttori. A cominciare ovviamente dal petrolio, col Brent sceso ancora (48,12 dollari al barile), mentre soltanto l’oro segna un modesto rialzo, come avviene di solito quando sui mercati tira aria di tempesta.
Questo significa immediatamente una bastonata per gli altri Brics (Brasile, Russia, India, Sudafrica), che hanno potuto svilupparsi negli ultimi decenni anche grazie al rapido apprezzamento delle materie prime, che ha consentito di decidere investimenti produttivi su grande scala senza dover dipendere esclusivamente dagli investitori esteri. Ma anche paesi come l’Australia, molti asiatici e quasi tutti quellli africani, stanno subendo la stessa sorte. Sottraendo così – è una conseguenza diretta del mercato globale – spazio per le esportazioni tecnologiche dei paesi più industrializzati.
E se tempesta vera ancora non è, insomma, certamente c’è diffidenza. Tokyo ha perso ancora l’1,6%, sia come conseguenza dell’andamento delle borse cinesi (il trascinamento negativo su tutte quelle asiatiche è stato piuttosto forte), sia – e forse soprattutto – per il manifesto esaurimento dell’Abenomics, la politica monetariaultra espansiva voluta da Shinzo Abe per rivitalizzare l’economia del Sol Levante.
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