Non c’è pace per chi continua inascoltato a chiedere la verità sulla morte di Giuseppe Uva, l’uomo che entrò vivo in una caserma dei Carabinieri di Varese il 13 giugno del 2008 e ne uscì poche ore dopo diretto all’ospedale, dove morì prima ancora che sua sorella e gli altri familiari potessero vederlo. Non solo l’inchiesta giace a un punto morto senza che nessun magistrato si sia degnato di ascoltare o interrogare il testimone – Alberto Biggiogero – di quanto accade quella notte in quella caserma. Nei confronti di Lucia Uva e di chi la sta sostenendo nella sua battaglia di verità si moltiplicano minacce e avvertimenti sempre più insistenti.
L’ultima ha preso la forma di una querela nei confronti degli autori del documentario “Nei secoli fedele’, Adriano Chiarelli e Francesco Menghini, che coraggiosamente ricostruisce attraverso una inchiesta rigorosa quanto accadde dal momento in cui l’uomo venne fermato dai Carabinieri in una via della città e condotto in caserma. In realtà le querele finora arrivate alla procura di Varese sono addirittura tre: la prima risale al 18 dicembre del 2012, presentata dai carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco; la seconda è datata 18 aprile, e firmata dai poliziotti Gioacchino Rubino, Pierfrancesco Colucci e Luigi Empirio; la terza è più recente, del 3 maggio, a nome di Francesco Focarelli Barone, anche lui agente della Polizia di Stato. Tutti appartenenti alle forze dell’ordine che, nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, ebbero a che fare con il fermo di Giuseppe Uva. E tutti attualmente assistiti da Luca Marsico, avvocato ma anche consigliere del Pdl alla Regione Lombardia.
Come se non bastassero le querele, si pretende anche il sequestro del documentario, che tra l’altro è stato già proiettato e presentato in decine di città italiane e visto da migliaia di persone dopo che gli autori avevano deciso di renderlo disponibile gratuitamente come contributo alla richiesta di verità e giustizia sui fatti che portarono all’atroce morte di Uva. Secondo le tre querele «Nel filmato sono arbitrariamente ricostruiti, alla luce della documentazione acquisita dagli autori del documentario e di talune deposizioni testimoniali, le fasi della vicenda riguardante l’arresto di Uva, la sua immediata traduzione nella caserma dei carabinieri di Varese per gli accertamenti di rito, il successivo Tso disposto dal sindaco di Varese, il trasferimento dello stesso presso l’ospedale di Circolo per le necessarie cure sanitarie, seguito da morte intervenuta per cause ancora in corso di accertamenti». Fatto sta che una sentenza dell’aprile del 2012 ha chiarito che Uva non morì a causa degli errori di qualche medico, nella fattispecie il dottor Carlo Fraticelli che, accusato di omicidio colposo, è stato assolto con formula piena dal giudice Muscato. Assoluzione che, seppur implicitamente, richiede che si indaghi accuratamente su quanto accadde mentre Uva era sotto custodia di Carabinieri e Polizia. Ma la procura di Varese non ne vuole sapere di riaprire e approfondire il caso, che rischia ora seriamente di cadere in prescrizione. Con buona pace di chi continua a chiedere verità e giustizia, come la sorella della vittima, Lucia Uva, anche lei più volte querelata e intralciata nella sua instancabile opera di denuncia. E oggetto insieme a Le Iene di una denuncia per diffamazione.
«È una cosa vergognosa – denuncia –, questi signori vogliono decidere cosa far vedere e cosa no. Fosse dipeso da loro, di questa storia non si sarebbe saputo niente: se riusciamo a parlarne è solo grazie alla nostra, come dire, prepotenza nel coinvolgere tutti e spiegare come stanno le cose. Adesso vogliono impedirci di fare pure questo».
Nonostante i continui ostacoli la sorella della vittima dell’ennesimo caso di ‘malapolizia’ continua caparbiamente la sua battaglia: «Non importa. Io continuo per la mia strada, a lottare insieme alle altre madri e sorelle di vittime dello Stato. Lo abbiamo visto ieri al processo per Stefano Cucchi: c’è un muro di omertà enorme, ma dobbiamo andare avanti e continuare a farci sentire, ogni goccia di verità in più sarà una goccia di giustizia per Giuseppe, Stefano e tutti gli altri».
Ora tra querele, denunce e richieste quella che all’inizio era una sensazione – che qualcuno non voglia che si faccia luce sulla morte atroce di Giuseppe Uva – diventa una constatazione sempre più evidente. E di fronte a chi chiede il bavaglio la migliore risposta non può che essere l’organizzazione quante più presentazioni e proiezioni di un documentario evidentemente importante, oltre che benfatto. A denunciare le querele contro il lavoro di Chiarelli e Menghini è stato recentemente il senatore del Pd Luigi Manconi, durante la conferenza stampa sulla vergognosa sentenza Cucchi. Il parlamentare ha denunciato un tentativo di censura che non ha eguali negli ultimi decenni. «L’ultima volta di un caso simile risale al 1975, quando fu sequestrato dalle sale Todo Modo di Elio Petri» ricorda Adriano Chiarelli (autore anche del libro ‘Malapolizia’), che aggiunge: «Abbiamo raccontato i fatti basandoci sugli atti processuali e sentendo i testimoni della vicenda». Ma è proprio questo che, evidentemente, dà fastidio.
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Fausta Ivaldi
In che Paese viviamo? Siamo in Venezueela o in Guatemala ai tempi dei desparesidos?
Bisogna aver paura della nostra Polizia? E scrivo Polizia al maiuscolo perchè mi hanno insegnato a rispettare le Istituzioni: incomincio ad avere dei dubbi, incomincio ad avere paura.
Mario Pellerey
beata te che ci credi ancora “la persona onesta non fa ne il prete ne il poliziotto” Mickail Bakunin, Don Gallo è l’eccezione che……..no pasaran