Pochi giorni fa è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale un decreto-legge, il d.l. 44/2021, che contiene, tra l’altro, norme in materia di concorsi pubblici. L’obiettivo dichiarato dal Ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta è quello di sbloccare i concorsi pubblici, velocizzarli e farli svolgere in modalità il più possibile digitale.
Fin qui, sembrerebbe non esserci nulla di male. In realtà, nelle pieghe della riforma è possibile rinvenire una traccia dell’impianto classista delle politiche di questo Governo e dell’ampia maggioranza che lo sostiene.
Ma vediamo cosa prevede la riforma. L’articolo 10 del decreto, quello dedicato, per l’appunto, alla disciplina dei concorsi pubblici, prevede la seguente articolazione delle fasi selettive per i concorsi per il reclutamento di personale non dirigenziale:
1) una preliminare fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti (diplomi, lauree, master) ai fini dell’ammissione alle successive prove;
2) l’espletamento di una sola prova scritta e
3) di una prova orale;
4) infine, eventualmente, la valutazione dell’esperienza professionale, inclusi i titoli di servizio, che può concorrere alla formazione del punteggio finale.
Vale la pena di specificare che sebbene il capo III del decreto-legge in questione, che contiene l’articolo 10, sia denominato “semplificazione delle procedure per i concorsi pubblici in ragione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19”, le modifiche in questione sono strutturali (si applicheranno, cioè, non solo fino al permanere dello stato di emergenza, ma anche dopo).
È scritto nero su bianco nel dossier del Servizio Studi del Senato sul provvedimento e la stessa formulazione della norma non lascia spazio a dubbi.
La preselezione per titoli è un regalo ai ricchi
Il punto della riforma sul quale si stanno concentrando molte polemiche è quello dello sbarramento all’accesso per i concorsi non dirigenziali sulla base dei titoli di studio.
Cosa si intende, infatti, nella norma, per “valutazione dei titoli legalmente riconosciuti ai fini dell’ammissione alle successive fasi concorsuali”? Nient’altro che la possibilità di prevedere una fase di preselezione, quindi a monte dell’intero processo selettivo, basata solo ed esclusivamente sui titoli.
In altre parole, sarà possibile, per quelle amministrazioni che decideranno di utilizzare questa facoltà, escludere una consistente parte dei candidati sin dall’inizio e senza che si sia svolta neppure una prova scritta.
Chiunque conosca, anche di sfuggita, il mondo (anzi, il business) dei master universitari capirà al volo dove si nasconda il classismo di questa proposta. È noto, infatti, che non tutti i laureati possono permettersi di pagare le salate quote d’iscrizione previste per i master. Inoltre, non tutti possono permettersi di rinviare di un anno l’ingresso nel mondo del lavoro.
Prevedere un vantaggio così decisivo per chi possiede titoli post-laurea significa escludere automaticamente dai posti di lavoro pubblici non solo una buona parte dei giovani neolaureati, che non hanno, ovviamente, avuto il tempo di accumulare ulteriori titoli post-laurea (pensiamo al caso estremo, ma diffusissimo oggi, degli studenti lavoratori), ma anche quella enorme platea composta da disoccupati, magari laureati da qualche anno, che non hanno i mezzi economici per conseguire ulteriori titoli.
Significa, quindi, che queste persone non arriveranno neanche a sedersi davanti a un test scritto, perché sarà loro impedita qualsiasi forma di partecipazione alle prove. Un’ingiustizia con la quale si calpesta ogni sacrosanto principio di uguaglianza sostanziale.
Si potrebbe dire che è troppo presto per gridare allo scandalo e che, nei fatti, tutto dipenderà da come queste indicazioni saranno accolte dalle amministrazioni che provvederanno, via via, a bandire i concorsi.
Ebbene, non è stato necessario aspettare troppo per avere questo tipo di conferma. Il 6 aprile è stato pubblicato il bando per 2800 unità di personale a tempo determinato per l’attuazione dei progetti del Recovery Plan. Ebbene, questo concorso prevede una fase di valutazione titoli che porterà all’ammissione alla successiva prova scritta di un numero di candidati pari a tre volte il numero di posti messi a concorso.
Ciò significa che non potranno accedere alle prove scritte più di 8400 persone (o, fatti salvi i candidati classificati ex aequo, poco più).
Questo particolare concorso, inoltre, in virtù del comma 4 dell’articolo 10, prevede anche la valutazione, già in fase di preselezione, delle esperienze professionali (per gli altri concorsi, le esperienze professionali potranno essere fatte valere “soltanto” in sede di determinazione del punteggio finale).
Ma come si svolgerà la valutazione dei titoli? Per il voto di laurea verrà attribuito un punteggio pari, al massimo (per i 110/110 e i 110 e lode) a 0,10 punti. Per gli altri titoli saranno attribuiti i seguenti punteggi: 0,5 per la laurea specialistica o magistrale, 0,25 per ogni laurea ulteriore. La somma di questi punteggi potrà essere al massimo pari a 1.
Per la formazione post-laurea saranno attribuibili, invece, fino a 3 punti (0,5 punti e 1 punto per i master di I e II livello, 1,5 per diploma di specializzazione e dottorato di ricerca). Già questo passaggio tende a penalizzare fortemente i neolaureati e coloro che, dopo la laurea, non hanno potuto, per svariate ragioni, principalmente economiche, proseguire gli studi.
Come se non bastasse, come dicevamo, in questo particolare concorso le esperienze professionali maturate nella gestione o nell’assistenza tecnica relativa a progetti europei e nazionali di politica di coesione conteranno anche ai fini della preselezione e per un massimo di ben 6 punti: sei volte il massimo del punteggio previsto per la laurea e la laurea magistrale/specialistica.
Una pietra tombale sulle speranze di qualsiasi neolaureato alla ricerca di lavoro: una diversa e minore pesatura dell’esperienza professionale consentirebbe di valorizzare comunque le competenze maturate senza, al contempo, escludere del tutto i giovani dalla selezione.
La riforma dei concorsi di Brunetta: altri aspetti disgustosi
Abbiamo visto che, nonostante la riforma sia stata pubblicizzata come un tentativo di sbloccare i concorsi pubblici in tempo di pandemia, i suoi effetti saranno duraturi, perché non è previsto un termine finale di operatività delle norme che regoleranno i concorsi pubblici.
Come spesso è accaduto, le situazioni di emergenza vengono sfruttate per inserire nel nostro ordinamento modifiche di natura strutturale, che hanno l’obiettivo di favorire le classi dominanti a scapito dei lavoratori.
Questa riforma, inoltre, per quanto possa sembrare incredibile, si presenta con un sovrappiù di infamia. Le norme in questione, infatti, potranno essere applicate non solo ai concorsi che saranno banditi dalla data di entrata in vigore del decreto in poi, ma anche ai concorsi già banditi e per i quali non siano ancora state svolte attività.
Potenzialmente, dunque, potremmo assistere a uno scenario nel quale migliaia di disoccupati, che da tempo stanno studiando per partecipare a un concorso pubblico al quale si sono già iscritti e per il quale, magari, hanno già versato la quota di partecipazione, potrebbero essere fatti fuori con un colpo di penna perché non si sono potuti permettere un master o un altro titolo di studio post-laurea.
Può essere utile ricordare che il padronato si è spesso scagliato contro il cosiddetto “valore legale del titolo di studio”. Attualmente, ai fini, ad esempio, di un concorso pubblico, una laurea in una determinata materia conseguita in un’università pubblica del Mezzogiorno e una laurea nella stessa materia conseguita alla Bocconi, con lo stesso voto, sono equivalenti dal punto di vista formale: non potranno dar luogo a un punteggio diverso ai fini della valutazione.
Ai padroni, gente che sogna percorsi formativi il cui unico metro di giudizio sia “il mercato”, questa equiparazione non piace. La ragione di questa contrarietà è evidente: se un povero Cristo riesce, grazie ai sacrifici della famiglia e nei ritagli di tempi dal lavoro, a prendere una laurea a pieni voti, e questa laurea è equiparata a quella di un’università privata esclusiva in cui bisogna sborsare decine di migliaia di euro, il vantaggio di essere facoltosi, almeno in questo campo, va a farsi benedire.
Ed ecco spiegata la crociata, principalmente portata avanti soprattutto dal centrodestra e dai radicali, ma non estranea agli esponenti del PD, contro il valore legale del titolo di studio. Ed ecco, inoltre, spiegato il periodico shitstorming contro le università pubbliche e, in particolare, contro le università pubbliche del Sud.
Ebbene sembrerebbe paradossale, adesso, proporre di dare così tanto valore a dei titoli di studio, al punto tale da eliminare la possibilità di partecipare ai concorsi pubblici per chi non ha un titolo post-laurea. In verità, la riforma è il proseguimento della battaglia per l’abolizione del valore legale del titolo di studio con altri mezzi: se non riusciamo ad abolire il valore legale dei titoli di studio tout court, allora almeno aboliamo quello dei poveracci.
Come? È presto detto: in attesa di tempi migliori, aumentiamo il valore relativo dei titoli di studio che piacciono a noi e i morti di fame si tengano pure il loro 110 e lode, che farà una bellissima figura tra i quadri della casa di famiglia.
E ciò dimostra anche, in un rivolgimento tanto inatteso quanto farsesco, che il lavoro pubblico, tutto sommato, non fa così schifo come costoro vorrebbero dipingerlo. A patto che l’accesso sia facilitato per chi ha già abbondanti mezzi economici.
Una visione per la quale lo studio universitario, mediato dalle regole di reclutamento nella pubblica amministrazione, non deve essere un ascensore sociale, ma uno strumento per calcificare e perpetuare le differenze di classe, accentuandone i caratteri ereditari.
Il nemico marcia insieme a te: postilla su Boeri e Perotti
A dimostrazione della complessità del discorso e dei variegati interessi in gioco, su Repubblica del 9 aprile è apparso un articolo, a firma di Tito Boeri e Roberto Perotti (entrambi professori alla Bocconi) che criticano aspramente la riforma Brunetta.
Ciò potrebbe sembrare sorprendente: due esponenti di spicco di un’università privata che criticano una riforma che favorisce così spietatamente chi può permettersi un master universitario? A ben vedere, però, le critiche di Boeri e Perotti sono di tutt’altra natura rispetto a quelle che abbiamo evidenziato.
Di cosa si lamentano, infatti, i due accademici? Di certo non delle implicazioni classiste della riforma. Di questo non c’è alcuna traccia nel loro articolo. Il problema, per loro, è che prevedendo una valutazione dei titoli di servizio (cioè le esperienze professionali nella PA) nelle fasi successive della selezione, la riforma favorisce la stabilizzazione dei precari (ad esempio della scuola) e chiude le porte in faccia ai giovani.
Della penalizzazione nei confronti di chi non può permettersi titoli di studio ulteriori rispetto alla laurea non c’è traccia.
Sia chiaro: la questione della stabilizzazione dei precari è senza dubbio di primaria importanza, ma contrapporla al dramma vissuto da centinaia di migliaia di giovani in cerca di un lavoro stabile è un ragionamento che trasuda miseria intellettuale e che ci propina una riedizione della disgustosa retorica padronale sul conflitto intergenerazionale.
Il precariato è uno strumento di disciplina del lavoro che sta rovinando la vita di milioni di persone solo nel nostro Paese: dovrebbe essere eliminato con delle esplicite stabilizzazioni che pongano fine al ricatto implicito nei contratti di lavoro cosiddetti flessibili. Aizzare i giovani disoccupati contro i più anziani precari serve solo ad alimentare una guerra tra poveri utile a mantenere inalterato lo status quo, che è l’origine dei problemi sia dei giovani che dei precari.
A tal proposito, proprio il ministro Brunetta ha recentemente promesso con toni altisonanti “150.000 assunzioni all’anno nella Pubblica Amministrazione”, come se fossero numeri elevati: sono briciole davanti alla carenza di organico della macchina statale, e sono meno di briciole davanti al dramma della disoccupazione, ed esattamente questo è il problema contro cui devono combattere, insieme, giovani e precari, contro l’austerità che impone la miseria della disoccupazione ai primi come una condanna e ai secondi come un ricatto.
E non è finita qui. Boeri e Perotti trovano anche il tempo di lamentarsi di quello che è un loro pallino: il valore d’acquisto degli stipendi dei lavoratori pubblici del Mezzogiorno, che, a giudizio dei due, sarebbe troppo alto rispetto ai lavoratori del Nord.
La riforma Brunetta, lamentano i due prof bocconiani, non risolverebbe un grave problema, quella della carenza di professori nel Settentrione, a causa del fatto che molti “insegnanti chiederanno di essere trasferiti al Sud dove il loro stipendio vale molto di più che al Nord, date le differenze nel costo della vita”.
Una disparità che in passato hanno proposto di superare con uno strumento a loro molto gradito: le cosiddette gabbie salariali. Un ragionamento privo di qualsiasi fondamento, utile solo agli interessi dei padroni.
Giovani contro anziani, meridionali contro settentrionali, lavoratori contro disoccupati, garantiti contro precari. La retorica padronale si alimenta di contrapposizioni fittizie, volte a nascondere la natura del conflitto di classe e a dividere la classe dei lavoratori, dietro la retorica della scarsità delle risorse.
Di fronte a questi continui attacchi, occorre tenere ben presente che soltanto restando uniti potremo opporci ai tentativi di calpestare i pochi diritti che ci sono rimasti e porre le basi per riacquistare ciò che ci è stato tolto.
Ben sapendo che tutto si tiene, fuori da ogni falsa dicotomia, occorre rivendicare uguaglianza nell’accesso al lavoro e uguaglianza nell’accesso alla formazione.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/
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