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Il delirio dell'”autonomia differenziata”. Il caso del commercio estero

Può risultare difficile spiegare in termini semplici perché la legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata” è contemporaneamente la base legale per distruggere la sempre precaria “unità del Paese” come sistema (economico, quindi anche sociale e politico) e una autentica idiozia sul piano macroeconomico.

Lasciamo intenzionalmente da parte gli aspetti più pubblicizzati da chiunque si opponga a quella legge (per la banale constatazione che ne abbiamo parlato cento volte anche noi, aderendo al movimento di opposizione sul tema: sanità, istruzione, servizi sociali, ecc), e vediamo un aspetto meno popolare ma forse ancora più illuminante: il commercio estero.

Anche Milano Finanza, forse il miglior giornale economico del panorama italiano (pur se completamente interno al panorama del “pensiero unico” neoliberale), nei giorni scorsi ha pubblicato un’analisi impietosa di un provvedimento legislativo che sembra pensato per il suicidio delle stesse imprese che lo hanno preteso.

Il punto essenziale è che, nell’immediato, le “competenze sul commercio estero” – pretese intanto dalle regioni del Nord a guida leghista o comunque di centrodestra (Piemonte, Lombardia, Veneto, e persino la Liguria – sciolta con l’arresto e il patteggiamento del “governatore” Toti, e ora in piena campagna elettorale per il rinnovo, quindi tecnicamente obbligata all'”ordinaria amministrazione”) – comportano la gestione di grosse cifre, perché anche quella italiana, agganciata a quella tedesca ormai da decenni, è un’economia export oriented

Comprensibile dunque che le menti particolarmente ristrette di amministratori regionali “miracolati” da una selezione elettorale ormai ridotta a televendita, o di “imprenditori” ansiosi di massimizzare il profitto individuale con qualche “mandrakata” (copyright di Gigi Proietti, of course) che non comporti investimenti o innovazione, abbiano sollecitato il passaggio di gestione dal ministero apposito alla palude regionale.

Non che la gestione ministeriale sia da considerare in sé “migliore”. Il personale politico che si è alternato alla sua guida va da patetico al raccapricciante… Ma sul piano astrattamente razionale appare molto più logico ed efficiente che il commercio estero di un piccolo Paese come l’Italia, caratterizzato da una produzione locale spesso di altà qualità ma dalle dimensioni medio-piccole (basti pensare all’alimentare, all’enologico, ecc) sia tutelato nel suo insieme da un ente statale in grado di centralizzare le politiche commerciali.

Garantendo così a tutte le imprese – indipendentemente dal territorio – l’accesso ai mercati esteri con l’accompagnamento di un “soggetto” (lo Stato italiano) dotato di una massa critica sufficiente, anche se non grandissima. Un soggetto, cioè, in grado di “pesare” almeno un po’ nella contrattazione politica internazionale sulle regole commerciali (ricordiamo le battaglie sui tanti prodotti “italian sound”, come il “parmesan”, ecc).

Su questo piano la frammentazione regionale in 21 “soggettini” ininfluenti garantisce solo la certezza di restare fuori da qualsiasi contrattazione rilevante.

Peggio ancora. In che modo le Regioni potrebbero promuovere la “competitività” dei prodotti locali sul mercato internazionale? Essendo prive di qualsiasi strumento e peso politico, dovrebbero limitarsi a “campagne promozionali”, introiettando la “concorrenza” anche a livello regionale.

Ci è arrivato anche Antonio Tajani – non a caso ministro del commercio estero, quindi con buoni consulenti in materia e ovviamente geloso delle proprie “competenze” – che si è spinto fino ad ironizzare pesantemente sulle aspettative dei suoi colleghi “regionali”: «Poi cosa facciamo, la guerra tra i vini piemontesi e quelli pugliesi?».

Per la natura delle medie imprese italiane questa “concorrenza” non potrebbe avvenire che sul prezzo, garantendo o promettendo sconti in cambio di determinati spazi sui mercati esteri. Uno sconto ovviamente più forte rispetto a quello spesso necessario nella concorrenza tra interi Paesi e Stati. Oppure a una richiesta di “sgravi” e “incentivi” fatta con soldi pubblici (regionali!), che o non ci sono o andranno trovati tagliando altre consistenti voci di spesa (la sanità, l’istruzione, ecc).

Detto altrimenti: l'”autonomia differenziata”, in materia di commercio estero, porterà per forza di cose – la pressione dei “mercati” – a una caduta dei profitti, invece che allo sperato aumento. Ma anche a qualche sognato guadagno politico in più per gli amministratori regionali, che non pensano ancora alle conseguenze…

Non ci vuole un premio Nobel per capire che il rimpicciolimento delle prospettive e delle possibilità di azione, in un mercato mondiale sempre dominato dai giganti e sottoposto da anni ad una frammentazione che non si vedeva dalla “Guerra fredda”, è una garanzia di rapido declino, una discesa agli inferi.

Invece di pretendere politiche industriali e commerciali all’altezza delle sfide, ci si accontenta di ritagliarsi degli “spazietti” dall’esistenza progressivamente più precaria. O, come scrive Guido Salerno Aletta su MF, “a meno che non si vogliano creare distorsivi meccanismi di competizione interna, erogando contributi e sovvenzioni differenziati a seconda della localizzazione regionale delle imprese che esportano, l’indubbia necessità di riorientarsi verso mercati nuovi per l’export non può sostituire quella di delineare processi di innovazione produttiva e di internalizzazione di segmenti di attività“.

Davanti a una spinta gigantesca verso la centralizzazione e la concentrazione dei capitali, e conseguentemente delle politiche (sintetizzata in  qualche mosura dal “rapporto Draghi”, in chiave neoliberale), le piccole menti della piccola borghesia italiota non vedono altra soluzione che “ognun per sé” localistico. Uno “speriamo che io me la cavo” il cui esito è scritto nelle stesse premesse.

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Ecco perché l’export italiano scatena l’appetito delle Regioni

Guido Salerno Aletta * – Milano Finanza

Piatto ricco, mi ci ficco: visto che l’export dell’Italia continua a macinare record positivi nonostante le difficoltà della congiuntura globale, essendosi recentemente appaiato in termini di valore a quello del Giappone come quarto nella graduatoria mondiale, continua il tira-e-molla sulle competenze politiche e amministrative in materia di commercio con l’estero. Dopo la disputa interminabile per attribuirsele a livello ministeriale, ora è cominciata quella tra Stato e Regioni.

A luglio Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto hanno chiesto al governo di vedersi attribuiti maggiori poteri anche in materia di commercio con l’estero, attivando il procedimento necessario per ottenere le «forme e condizioni particolari di autonomia» previste dall’articolo 116 comma 3 della Costituzione, che prevede la firma di un’intesa tra Regione e Stato che va poi approvata per legge con il voto a maggioranza assoluta del Parlamento.

Questione di Costituzione

Tutto si inquadra quindi nel tormentatissimo processo di attuazione del comma 3 dell’articolo 116 della Costituzione, che fu modificato nel 2001 nell’ambito di una complessiva rivisitazione del Titolo V: dopo ben 23 anni lo scorso 26 giugno è stata finalmente approvata la legge n. 86 recante «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario», ma è stata immediatamente attivata la richiesta di sottoporla a referendum abrogativo con la raccolta delle firme conclusa positivamente il 15 settembre scorso.

A questo punto, se la Cassazione convaliderà il raggiungimento del quorum delle 500 mila firme e la Corte Costituzionale dichiarerà ammissibile la richiesta referendaria, si andrà votare tra aprile e giugno 2025.

La richiesta delle Regioni ha già trovato un primo intoppo a livello governativo: il ministro Antonio Tajani ha infatti rappresentato perplessità per la sottrazione di competenze al suo dicastero, affermando: «Io sono responsabile dell’export e credo sia sbagliato affidare l’export a ogni Regione. Poi cosa facciamo, la guerra tra i vini piemontesi e quelli pugliesi?».

La classifica delle Regioni

La questione del commercio con l’estero va vista nella sua complessità, tenendo conto del peso assai rilevante che ha sull’economia di talune Regioni, come il Veneto e la Lombardia, che da anni invocano maggiore autonomia dallo Stato centrale, celebrando pure entrambe nel 2017 un referendum consultivo a tal fine: il Veneto, per esempio, nel 2022 ha esportato il 45% del suo prodotto, con un andamento che è rimasto sostanzialmente stazionario nel 2023 (-0,3%) per un valore di 82 miliardi (il 13,1% del totale dell’Italia); sempre nel 2023 l’export della Lombardia è stato invece di 164 miliardi (+0,8%), mentre il secondo trimestre di quest’anno ha segnato un impercettibile +0,1% rispetto a 12 mesi prima. Il Veneto ha avuto un andamento negativo: -1,8%.

Sorprendentemente, prendendo ancora come riferimento quest’ultimo indicatore, è stata la Sardegna ad aver messo a segno nel secondo trimestre l’andamento migliore dell’export: +31,3%. Nel Nord l’export della Liguria è andato malissimo col -33,6% e male è andato quello del Piemonte col -6,8%. Nel Mezzogiorno, le dicotomie sono evidenti, con la Calabria che ha segnato un ottimo +10,7% e la Campania un +8,1%, mentre per la Sicilia un brusco -5,3% e la Basilicata un drammatico -46,1%.

Al Nord come al Sud, l’andamento dell’export dipende dal grado di concentrazione nell’insediamento di specifiche produzioni: Unioncamere Lombardia ha rilevato che c’è una contrapposizione tra sei provincie con un andamento positivo e altrettante con un segno negativo: Lodi +17,6%, Monza e Brianza +9,9%, Sondrio +2,5%, Pavia +2,3%, Como +0,6%, Mantova +0,5%, Cremona -0,3%, Lecco -0,5%, Brescia -1,2%, Bergamo -1,6%, Milano -2,1% e Varese -4,8%.

Attenzione alla debolezza tedesca

Se dal punto di vista delle tipologie di prodotti esportati e dei mercati di destinazione c’è un allineamento tra i dati statistici nazionali e quelli regionali, soffrono maggiormente le Regioni in cui le imprese si erano più specializzate in determinati settori e nei Paesi che ora sono maggiormente in difficoltà: chi esporta semilavorati in Germania va male a prescindere dal fatto che produca in una Regione piuttosto che in un’altra.

Mentre la transumanza delle competenze da un ministero all’altro si è dimostrata sostanzialmente ininfluente rispetto alla dinamica delle esportazioni, le recenti rivendicazioni di maggiori poteri regionali in materia di commercio con l’estero costituiscono un pericoloso diversivo rispetto alla natura della sfida che oggi si presenta: a meno che non si vogliano creare distorsivi meccanismi di competizione interna, erogando contributi e sovvenzioni differenziati a seconda della localizzazione regionale delle imprese che esportano, l’indubbia necessità di riorientarsi verso mercati nuovi per l’export non può sostituire quella di delineare processi di innovazione produttiva e di internalizzazione di segmenti di attività.

Ad agosto l’Italia ha registrato per il 19° mese consecutivo un calo della produzione industriale (-3,2%). Il calo maggiore ha riguardato la produzione di mezzi di trasporto (-14,2%) e di macchinari e attrezzature (-11,6%). Anche le industrie tessile e siderurgica hanno accusato un colpo pesante (-10,8% e -10,1%). La Germania, di cui siamo subfornitori nella meccanica, prevede un altro anno di contrazione economica.

Bisogna dunque guardare molto avanti, in un contesto così complesso, con scelte estremamente difficili e sforzi enormi di politica industriale che devono riguardare l’intero apparato economico, quale che sia la Regione in cui le imprese sono insediate.

  * da Milano Finanza

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