Avrete capito che non resisto alla tentazione di fare delle considerazioni a botta calda.
Sì, sono un bel po’ deluso dal risultato di PaP in Emilia Romagna che mi aspettavo, di certo, migliore. E, tuttavia, non credo affatto che si debba intendere quell’esito come una disfatta.
Nel fantastico mondo dei social regnano emotività e compulsività e non è facile condividere in questi non-luoghi qualcosa che assomigli ad un ragionamento.
E allora, insisto ad andare controcorrente e provo a tracciarne uno.
Alcuni hanno già tirato conclusioni frettolose e apocalittiche. In questi casi, è la reazione più ovvia e semplice. La più immediata, appunto.
Ma un compagno stamane mi ha fatto notare un dato che ritengo molto importante che anche se non modifica l’esito finale, di certo, ne offre una chiave di analisi e di interpretazione assai diversa dalla semplice conclusione frettolosa e semplificante dell’ “abbiamo perso” e dalla solita cultura della sconfitta.
Il risultato di Bologna è quel che vedete nel grafico e dove PaP ha una buona presenza sul territorio. Lì non è andata così male. In regione, invece, la scommessa era assai ardua e PaP era assente in 4 Province su 9.
Ci vogliono soldi, mezzi, tempo, risorse per battere da palmo a palmo una regione che non è esattamente il Molise.
E poi parliamoci chiaro: in Emilia c’è un sistema di potere granitico e tentacolare legato a doppio filo ad interessi formidabili che passa per PD, le COOP, l’Unipol, la CGIL, i patronati et et.. Un potente sistema di relazioni politico-clientelari che si muove in quasi perfetta sintonia con la Confindustria locale.
Forse tutto questo potere non sarebbe bastato a Bonaccini questa volta. Forse.
Ma mi pare evidente come l’operazione “Sardine” ed il bau-bau contro Salvini abbiano rimotivato una fetta consistente di astensione e di elettorato deluso che, assai probabilmente, ha rovesciato quella forchetta che, fino a non poco tempo fa, i sondaggi avevano registrato come favorevole alla candidata leghista.
E poi le elezioni emiliano-romagnole avevano assunto un rilievo politico nazionale essendosi trasformate in un voto sul governo giallorosè e nello scontro finale tra quelle che continuo a considerare due destre. Chiaro che, per tutto il mondo che ruota intorno al PD, una sconfitta, proprio nella sua roccaforte, a queste elezioni avrebbe avuto un esito a catena devastante per Zingaretti & co. e per tutti gli interessi ed apparati collegati ad esso.
E di sicuro, questa schiacciante polarizzazione politica e mediatica del voto ha reso pressoché invisibile qualsiasi altra proposta come dimostrano i dati altre 2 liste cui va aggiunta anche lista “civetta” di Edi Schlein in coalizione con il PD.
E poi c’è la Rete.
Trump(vedi il caso “Cambridge Analitica”), Renzi e la Bestia di Salvini sono solo gli esempi più noti che stanno lì a dimostrare che la rete non è neutra ma che è divenuta uno strumento di manipolazione enorme del consenso e che, per superare le barriere algoritmiche, oggi, ci vogliono organizzazioni potenti, efficienti e che dispongono di molte risorse.
Non dubito della buonissima fede tanti che le hanno seguite, ma io credo che, a monte, le “Sardine” siano state un’ottima operazione di marketing in Rete a favore di Bonaccini, del resto apertamente sostenuto dai suoi leader.
Inutile girarci intorno: la Rete è divenuta il più grande e potente strumento di controllo sociale e politico di tutti i tempi. La Rete si è dimostrata in tutto e per tutto, prendendo a prestito una definizione di Carlo Fomenti, un’ “utopia letale” trasformandosi da possibile strumento di controllo del potere dal basso e di nuova socializzazione in un poderoso strumento di controllo sociale e di manipolazione del consenso. La Rete come un moderno Panopticon, il modello di edificio ideato da J. Bentham per rispondere alle esigenze di organizzazione e controllo sociale dettate dallo sviluppo capitalistico nel tardo ottocento. La Rete : il più grande dispositivo (nel senso Foucaultiano) di controllo e produzione di soggettività che sia mai esistito.
Secondo l’analisi di Formenti tre sono i grandi miti fondativi che hanno incantato il grande pubblico mondiale: Internet e le nuove tecnologie digitali sarebbero stati portatori di un processo di democratizzazione 1) sul piano politico, 2) sul piano economico, 3) sul piano della diffusione dei saperi. Tutti e tre questi miti fondativi non erano altro che una mera autorappresentazione ideologica che i social ed i nuovi media danno di sé stessi.
V’è una netta distinzione tra la realtà odierna della Rete e coloro che furono gli ideatori dell’uso civile di Internet: studiosi e studenti delle università statunitensi; gli hackers e le prime comunità virtuali americane ispirate dalla letteratura fantascientifica di Philippe K. Dick, dalle teorie di Norbert Wiener e dai movimenti cyberpunk tra anni ottanta e novanta. I pionieri di Internet miravano di certo a dare vita a spazi di democrazia radicale e di libera circolazione dei saperi.
Ma queste istanze di democratizzazione finirono per essere divorate dai nuovi grandi gruppi dell’industria informatica quando questi iniziarono a interessarsi di Internet, nel 1995, con il lancio del browser di Internet Explorer di Microsoft che avviò il processo di monopolizzazione dei flussi di informazione. Oggi la Rete è ben rappresentata da alcuni dati: il 90 per cento dei blog e dei post sulla Rete è controllato in modo diretto o indiretto dai grandi gruppi multinazionali.
E su questo terreno ha ragione Renato Curcio quando scrive che la maggior parte delle volte si è ceduto ad un ottimismo tecnologico mosso più da idealismi e narrazioni vincenti (ma subite) che dall’analisi concreta della realtà. Discorsi sulla “maturità del comunismo” si sono mossi di pari passo con un’esaltazione delle potenzialità che le nuove tecnologie offrivano, ma le suggestioni prodotte da questi cambiamenti epocali hanno finito spesso per coprire il loro configurarsi prima di tutto come nuovi mezzi al servizio dello sfruttamento.
Appare quanto mai necessario, dunque, riposizionare tutto il discorso sulla tecnologia all’interno dei rapporti di forza esistenti per iniziare a capire come contrastare davvero la nuova egemonia digitale del capitale e delle sue nuove rappresentazioni ideologiche.
Forse è arrivato il tempo di riflettere molto seriamente sull’enfasi che abbiamo dato alle possibilità della comunicazione in rete e sulla false scorciatoie che ci siamo illusi di praticare là dentro, fuori dal principio di realtà, finiti come siamo in immenso cloud chiuso in un data center dell’Oregon o della Lapponia.
Prima di proporci a qualsiasi prossima elezione dovremmo sapere quali sono – obiettivamente ed oggettivamente – le nostre reali condizioni sul campo e quali risultati abbiamo conquistato con la lotta e la mobilitazione sui bisogni concreti delle persone. Si, perchè solo quei risultati possono fare la differenza tra le promesse elettorali ed una fiducia acquisita sul territorio da parte di chi poi si ricorderà di chi aveva accanto quando aveva bisogno di aiuto, sostegno, supporto. Non più il carro davanti a buoi.
E poi lo sappiamo: il voto di ieri non cambierà la realtà di periferie abbandonate a sé stesse; il voto di ieri non farà cambiare idea ai tantissimi giovani che sono costretti a lasciare il paese; il voto di ieri non ha abolito la condizione di schiavitù in cui è precipitato il lavoro grazie proprio alle leggi approvate dal centrosinistra con la complicità dei sindacati maggiori; il voto di ieri non ci restituirà pensioni dignitose. In queste crepe si sono inseriti la Lega ed i fascisti. Da lì bisogna ricominciare. Il resto è circo mediatico e teatrino della politica.
E se non è ancora il momento, non arrovelliamoci in estenuanti e faticosissime campagne elettorali. Fin che quel momento non è davvero arrivato, restiamo extraparlamentari.
In conclusione mi soccorrono le parole del Grande Timoniere: “Dopo aver subito uno scacco, bisogna trarne una lezione e modificare le proprie idee in modo tale da farle corrispondere alle leggi del mondo esterno, e così di potrà trasformare lo scacco in un successo; è quel che è espresso dalle massime: la sconfitta è la madre del successo e ogni insuccesso ci rende più cauti.“ E voglio soprattutto ringraziare, con tutto il cuore, la grande Marta Collot per essersi battuta senza risparmio come una leonessa in una partita che si sapeva difficilissima se non impossibile.
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lamberto dolce
Io ho votato PAP e Marta e lo rifarei. Abito nel centro di Modena, il cuore e il cervello ( senile ormai) del PD e credo che nella nostra realtà regionale la crisi pur feroce non ha ancora devastato e traumatizzato le masse. Ho partecipato alla manifestazione dei ” mille” sabato 18 gennaio e credo che anche quel momento sia stato importante. Poi personalmente io il voto non lo considero un punto di arrivo e spero che PAP continui a vivere e a crescere sempre di più. Me lo vivo come un inizio dopo tanti tentativi che sono andati da Rifondazione a vari gruppi alla sua sinistra che hanno provato a riproporre un’organizzazione contemporanea per la lotta di classe del XXI secolo e sono franati miseramente. Quindi va bene ogni riflessione, anche dura e critica ma niente autolesionismo per favore. Continiuamo con il poco che è stato fatto.
antonio
A questo proposito mi azzarderei nel fare una riflessione sulle capacità cognitive e di classe che alcuni settori sociali si dimostrino capaci di attuare. In questo caso i “numeri e le percentuali” trovano il tempo che trovano; e stavolta il “tempo (Reazione contro Rassegnazione) non era favorevole a scelte serie e di classe”. Potere al Popolo ha saputo e potuto essere presente creando un “proprio specifico” spazio politico, sociale e di classe perciò; scusate: non mi sembra proprio poca cosa …tutt’altro!! Bene così e ….avanti PaP!