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Cop 21. Un vertice che condanna il pianeta al disastro

Quando tutti i criminali sono felici e d’accordo una sola cosa è chiara: hanno vinto un’altra battaglia. La conferenza mondiale sul clima, convocata a Parigi e chiusasi ieri sera, è stata il teatro di questa battaglia persa per fermare l’aumento delle temperature e quindi ridurre gli effetti catastrofici sul clima globale.

Il sorriso compiaciuto dei tanti capi di stato e di governo fa il paio con quello ultrafelice delle grandi compagnie multinazionali, ovvero le prima responsabili dell’attuale situazione e della sua evoluzione negativa. Solo un certo numero di scienziati e attivisti scuote negativamente la testa indicando le voragini aperte in un accordo che non promette molto di più delle sole rassicurazioni verbali.

Facciamo un esempio semplice, prendendo per buone le formulazioni del testo faticosamente assemblato. All’art. 2 si dice con grande enfasi che tutti gli Stati devono attenenrsi alle indiczioni “compiendo gli sforzi possibili per raggiungere gli 1,5°C”, ovvero meno del già utopistico 2% indicato alla vigilia del vertice. Sembra una prova certa della buona volontà di raggiungere risultati veri, tangibili, radicali.

Ma tutto crolla davanti alla semplice domanda: quali sistemi di controllo e di sanzione sono previsti? E su quali tempi?

Di sanzioni per chi sfora gli obiettivi di riduzione non se ne parla affatto. Quindi nessuno corre rischi se non applica i protocolli, quindi ognuno continuerà a fare come meglio crede, secondo convenienza economica. Le prime “verifiche” sono oltretutto rinviate al 2023, e successivamente a quella data ogni 5 anni, il che lascia quasi un decennio di mano libera, che verrà certamente utilizzato nel migliore dei modi dai grandi inquinatori. Senza eraltro prevedere, ripetiamo, alcuna sanzione per i fuori regola. Persino il prezzo da pagare per le emissioni nocive – secondo il pessimo ed inefficace principio della “monetizzazione” dell’inquinamento – verrà fissato in altra data, senza fretta.

Si parla di ridurre di almeno il 70% le emissioni entro la metà del secolo, ma non esiste una tempistica chiara che definisca il percorso. Per dirne una sola: non è indicata una data qualsiasi che faccia da spartiacque, che rappresenti insomma “il picco” oltre il quale si deve cominciare a scendere.

Non che si potessero nutrire soverchie illusioni su questo pomposo vertice di criminali che recitano una parte in commedia. Ridurre le emissioni in misura tale da frenare l’aumento delle temperature medie del pianeta significherebbe metter mano immediatamente al modo di produzione imperante, sostituendo al motore del profitto individuale di impresa (assolutamente incontrollabile e “anarchico”) una regolazione globale della produzione e della distribuzione della ricchezza, concentrando inizialmente tutti gli sforzi nella sostituzione degli idrocarburi come fonte principale di energia. Un’utopia letale per il capitalismo attuale, che ha dismesso anche le apparenze di “responsabilità sociale” per assumere come principio fondamentale l’aumento illimitato e illimitabile della “competitività”. La via della deregulation assoluta, insomma, di fronte a un problema globale che richiede – come minimo – regole e sanzioni rigidissime.

Ma non si può mettere in discussione il modo di produrre e distribuire la ricchezza, dunque qualsiasi accordo è fatto di dettagli insignificanti, di obiettivi per cui manca qualsiasi percorso di avvicinamento, di impegni facilmente dimenticabili. Non deve essere avvenuto per caso che le parole “petrolio” e “combustibili fossili” non siano neppure nominate nelle 31 pagine del testo finale. È come dire che si vuole curare un malato senza voler sapere quali siano le cause principali della malattia; quindi senza rimuoverle.

E di malattie se ne prevedono davvero tante, alcune di dimensioni catastrofiche (a seconda dell’aumento effettivo della temperatura). Alcuni paesi insulari del Pacifico rischiano la scomparsa, un’infinità di altri – collocatti a cavalo dell’equatore – stanno galoppando verso la desertificazione irreversibile. Il meccanismo Loss&Damage sembra riconoscere un collegamento diretto tra emissioni prodotte dai paesi più industrializzati e danni subiti dai paesi più a rischio; ma definisce un piano di “rimborsi” assolutamente ridicolo rispetto alle esigenze. 100 miliardi da qui al 2020, ma attraverso “contribuzioni su base volontaria”, nonostante negli ultimi anni questo sistema abbia prodotto risultati pari ad appena il 10% degli obiettivi fissati. In pratica, le grandi multinazionali non sono vincolate in nessun modo a rifondere i danni da loro provocati. Nessun “grande leader mondiale” ha voluto correre il rischio di inimicarsele; il che mette una lapide definitica sulle possibilità di azione della “politica” e della “diplomazia”.

Soprattutto, non si prevede alcuna corresponsabilizzazione dei paesi più sviluppati per l’inevitabile aumento delle migrazioni dalle aree che diventeranno presto inabitabili verso quelle più al riparo dai disastri. È come se si dicesse a questa parte di umanità – calcolata in 4,5 miliardi, quasi i due terzi del totale – “per voi non c’è futuro e a noi non ce ne frega niente”. Secondo i calcoli più prudenti, i “profughi ambientali” saranno almeno 250 milioni, nel corso dei prossimi 30 anni. Poi ci sono quelli che fuggono dalle guerre…

Cop21, insomma, seppellisce tranquillamente ogni possibilità di frenare la corsa del pianeta verso il baratro.

 

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