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L’Aprile nero del petrolio

Lunedì 20 aprile verrà ricordato come una giornata storica per l’industria petrolifera.

Il prezzo del greggio statunitense quotato sul mercato dei Future NYMEX è divenuto negativo per la prima volta nella sua storia per una parte consistente della sessione finanziaria.

Il West Texas Intermediate – la tipologia di greggio texano che funge da indice nelle transazioni – poco prima di risalire sopra lo zero è stato trattato fino ad un prezzo negativo di -37,67 dollari al barile.

Jim Reid di Deutsche Bank ha giustamente affermato che questo è «uno dei momenti più significativi della storia della finanza».

Ci si spinge ad affermare che «se lo stoccaggio globale peggiora più velocemente, il brent [benchmark il petrolio di alta qualità, del Mare del Nord, Nda] potrebbe inseguire il WTI verso il fondo».

Intanto le incertezze rispetto al lockdown e la prestazione negativa dei titoli dell’oil and gas hanno trascinato lunedì l’indice borsistico statunitense (lo S&P500) ad un -1,8%. In buona compagnia delle piazze europee che hanno concluso con un segno “meno” superiore ad un punto percentuale, come il -1,2 del FTSE di Londra ed il -1,5% del Dax di Francoforte.

Una dinamica simile, ma molto più contenuta fino ad ora, dell’altra tendenza “ribassista” che aveva trascinato le borse di mezzo mondo circa un mese fa.

La giornata di lunedì sembra confermare che sia saltato un punto di equilibrio importante tra le necessità dei produttori petroliferi e le esigenze di profitto della finanza, che lo usa come sottostante, sullo sfondo di una crisi sistemica in cui una merce simbolo come il petrolio è una delle prime vittime..

«Il limite di questo equilibrio», ha dichiarato Patrice Geoffron, direttore del Centro di Geopolitica dell’energia e delle materie prime di Paris-Dauphine, «doveva finire per emergere: è caotico avere un regime concorrenziale ed aggressivo, come il petrolio di scisto americano, il cui sviluppo è subordinato ad un regime di regolazione a livello mondiale che gli permette giustamente di sopravvivere».

Il contesto

La diffusione dell’epidemia da Covid-19 in Cina ha dato vita ad una notevole contrazione dei consumi di petrolio, com’era già evidente a metà febbraio. Questo ha portato alla precipitazione delle relazioni tra i maggiori produttori mondiali, che siedono nel cartello allargato OPEC Plus, su come affrontare tale situazione.

In particolare lo scontro tra Arabia Saudita e Russia ha provocato in un primo momento la fine della “governance” del mercato petrolifero, con una guerra dei prezzi iniziata proprio quando la pandemia cominciava a mietere le sue vittime al di fuori della Cina.

Si è venuta a creare una situazione che non si ripeteva dagli Anni Trenta del secolo scorso: eccedenza di produzione rispetto alla domanda e prezzi al ribasso anche per scelta politica saudita, che voleva inondare con il proprio greggio il mercato a prezzi stracciati e far fuori il petrolio di scisto Usa (costoso da estrarre).

Di questo conflitto hanno fatto in particolare le spese gli Stati Uniti e gli Stati membri del cartello petrolifero allargato – come Algeria, Angola e Nigeria per l’Africa, anche loro alle prese con la pandemia – nonché Paesi membri dell’OPEC Plus al centro della politica di sanzioni statunitense, tra cui Iran e Venezuela. Oltre a Messico e Iraq, per i quali la rendita petrolifera è una parte rilevante della propria economia.

Un ulteriore fattore di destabilizzazione in un contesto di già grande vulnerabilità.

Questa corsa verso il baratro sembrava si fosse arrestata con il più consistente accordo nella storia mondiale, della prima metà d’aprile, per tagli alla produzione petrolifera.

Un accordo stato raggiunto prima in sede OPEC Plus e poi “suggellato” nel G20 dell’Energia, dove tra l’altro i Paesi si sono impegnati a “rimpinguare” le proprie risorse strategiche di greggio. Era stato deciso per i mesi successivi un taglio di un decimo della produzione globale, “a scalare” per gli anni successivi, a fronte di una diminuzione di un terzo della domanda.

Il rapporto tra domanda ed offerta quindi risultava ancora pesantemente sbilanciato.

Tutti i global player si erano “diplomaticamente” resi disponibili ad ulteriori misure.

Ma se questi due consessi (OPEC Plus e G20 dell’Energia fortemente voluto dal direttore dell’IEA, Fatih Birol) avevano provato a ripristinare un “governance” nel settore, i prezzi delle due principali qualità di riferimento dei prezzi del petrolio – brent e WTI – non erano affatto risaliti, con il primo ben sotto i 30 dollari al barile ed il secondo sotto i venti alla fine della scorsa settimana.

Il sentiment dei mercati, tra l’altro, risentiva pesantemente degli scenari non propri rosei elaborati dal Fondo Monetario Internazionale rispetto all’economia globale.

Quello che sembrava dunque un successo diplomatico delle pressioni statunitensi, che aveva fatto esclamare allo stesso Donald Trump «un grande accordo per tutti», non ha sortito alcun effetto sulle quotazioni petrolifere.

Infatti, come ha spiegato un analista del Financial Times, «fino a quando rimane lo sbilanciamento, i prezzi rimangono bassi e volatili».

Ma la “volatilità” del prezzo è dovuta anche alla “finanziarizzazione” dell’industria petrolifera, un fenomeno con cui la stessa OPEC alcuni anni fa aveva tentato di fare i conti, passando dalle dure critiche agli “speculatori” degli anni precedenti agli incontri in pompa magna con i vertici degli hedge fund del settore.

Una convivenza più che mai difficile, come mostrano questi giorni.

Come ha affermato Roger Diwan di IHS: «non bisogna dimenticare che il petrolio oggi è soprattutto un prodotto finanziario, e ne vediamo le conseguenze».

La volatilità del mercato

L’aprile nero – la definizione è di Fatih Birol – inaugurato venerdì ha alcune cause strutturali ed alcuni motivi contingenti, che attengono ai particolari aspetti tecnici di questo mercato finanziario.

Lunedì per esempio erano in scadenza i contratti per le forniture di maggio.

Gli analisti finanziari spiegano che i traders che non dispongono di contratti di medio-lungo periodo per stoccare il greggio sono stati costretti a “sbarazzarsene”, fino al punto di offrire soldi ai possibili compratori.

Una dinamica che potrebbe ripetersi – o addirittura peggiorare – quando saranno in scadenza i contratti per giugno. E le quotazioni di martedì su questi ultimi contratti, per certi versi, sembrano anticipare la tendenza, visto che dopo le 11 della mattina di martedì sono calati del 30%.

Warren Patterson di ING afferma infatti che: «è probabile che lo stoccaggio,  il mese prossimo, sarà questa volta ancora più un problema».

Il NYMEX, ovvero New York Mercantile Exchange, è il principale mercato mondiale per futures ed options sui prodotti energetici, ed una delle piazze mondiali più pesantemente implicate nella finanza derivata – cioè di quei veicoli di investimento finanziari collegati ad un “bene sottostante” – in questo caso il petrolio di scisto americano.

Questo è un settore molto a rischio, visto l’alto costo di produzione del fracking rispetto all’estrazione del greggio dei suoi maggiori competitor – Russia ma soprattutto USA – che ha bisogno di un costante investimento finanziario che si risolve (quando i prezzi calano) in una pesante esposizione debitoria.

Negli ultimi 10 anni il valore dei titoli borsistici statunitensi collegati all’oil e gas sono triplicati.

Nonostante la domanda di greggio statunitense, anche domestica, sia drasticamente diminuita – con il blocco di fatto del traffico aereo e la riduzione di quello automobilistico – la produzione non si è abbassata in proporzione.

Le stime parlano di 2 milioni  di barili al giorno “estratti” in più rispetto all’attuale capacità delle raffinerie.

Per dare un ordine di grandezza, gli Stati Uniti erano dal 2018 il maggior produttore al mondo con circa 12 milioni di barili al giorno.

L’Agenzia di Informazione sull’Energia ha dichiarato che tornerà ad essere un Paese importatore entro la fine dell’anno.

Il rallentamento delle capacità estrattive di scisto è tecnicamente complesso ed economicamente impegnativo.

Ma nell’attuale contesto «costosi fermi ai siti o fallimenti si riveleranno meno cari, per alcuni operatori, che pagare (…) per sbarazzarsi di quello che hanno prodotto», ha detto l’analista Louise Dickson.

Ed il possibile salvataggio da parte dell’amministrazione nord-americana – per non perdere capacità produtiva indipendente dall’estero – le trasformerebbe in aziende zombie.

Questa dinamica ha portato ad una progressiva saturazione della capacità di stoccaggio, in particolare a Cushing, in Oklahoma, punto di intersezione di differenti pipelines petrolifere, tanto da essere universalmente conosciuto come “Pipeline crossroads of the world”.

A quanto è stato riportato dalla EIA, il 10 aprile, le cisterne di questo hub petrolifero erano piene per 55 milioni di barili, cioè circa i ¾ della propria capacità totale di stoccaggio (72%), pari a 76,1 milioni di barili. Annullando di fatto la possibilità di accrescere la capacità di ulteriore immagazzinamento.

I traders “puri” non potevano perciò disporre di un long time lease – una capacità d’affitto a lungo termine – per non ritrovarsi quote di greggio invendute “sul groppone”. Altri hanno giocato sul differenziale di prezzo tra il -30/40 dollari al barile ed i 20 dollari cui è quotato il prezzo delle forniture per giugno, recuperando in parte quel gap prodotto dal crollo dei prezzi dai 60 dollari al barile (ad inizio anno) ai 18 di venerdì scorso.

La finanza “distruttiva”

E qui riprendiamo il discorso sulla finanziarizzazione del settore e le scommesse “speculative” di cui è vittima.

Uno dei maggiori attori del NYMEX è il fondo USO, cioè United States Oil fund.

USO è un ETF, cioè un Exchange Traded Funds, creato nel 2006, che ha visto aumentare il flusso di capitali nell’ultimo periodo di ben 1,5 miliardi di dollari.

Il gioco a cui sta giocando questo fondo, come altri è relativamente semplice. Gli investitori che convogliano flussi di valore su questi fondi erano convinti che il prezzo del greggio aumentasse.

Così non è stato ed infatti lunedì il prezzo per i contratti di giugno, su cui OSU ha orientato i suoi investimenti, si è abbassato di circa il 15%.

In generale gli investitori sono convinti di poter comprare ora ad un prezzo bassissimo qualcosa che potranno rivendere più tardi, quando il prezzo sarà aumentato, per così dire navigando “a vista in un mare in tempesta”.

La logica che sta alla base a questa “scommessa sul prezzo” viene fatta sull’esperienza pregressa: ciò che accadde nel 2009. quando l’aumento dei prezzi del greggio ha permesso di triplicare il valore della propria “giocata” in un anno, o anche l’inizio del 2016.

Si acquista a prezzi bassi, si vende a prezzi alti… E’ la regola, e se ne frega di quel che accade di conseguenza.

USO è una di quelle “balene delle commodities” che incidono sempre più pesantemente sul mercato, e detiene una porzione esorbitante dell’interno commercio in borsa, influenzandone pesantemente le dinamiche. E anche questo lunedì se ne sono visti gli effetti.

USO aveva infatti annunciato lo scorso giovedì che stava muovendo il 20% dei suoi contratti dei mesi seguenti sul WTI – da quelli per le forniture di maggio a quelli di giugno e oltre -, i prossimi giorni chiave saranno tra il 5 e l’8 maggio.

«Venerdì il fondo possedeva l’equivalente di 146,5 milioni di barili di WTI di future per le consegne di giugno nel New York Mercantile Exchange (…) Più di un quarto del totale degli open interest nel contratto. Le regole del Nymex impongono una “livello di responsabilità” dell’equivalente di 10 milioni di barili per la maggior parte dei contratti sui futures del petrolio negli USA, oltre il quale i traders possono essere indotti a ridurre la propria posizione»

15 volte la quota normalmente consentita, alla faccia delle regole!

È chiaro come, con questo peso e con queste dinamiche degli “oil-backed exchange traded funds”, ci può essere un’ampia forbice che de-connette il valore finanziario rispetto al sottostante mercato fisico.

Ed Morse, a capo del gruppo di ricerca sulle commodities di Citigroup, ha dichiarato che «ci sono investitori di rilievo nel settore energetico cui non interessa discutere con le persone che si occupano dei fondamentali. Non gli interessa»

Tutto questo funziona fino a quando i castelli di carte della finanza non devono fare i conti con la dura realtà. E il sogno della finanza nord-americana, che aveva “drogato” la produzione del petrolio di scisto con la benedizione di Donald Trump, si trasforma ora in un incubo.

Un immenso boomerang in grado di travolgere la pretesa egemonia energetica, la superiorità finanziaria, e perpetuare a piacimento l’american way of life.

Alla fin fine l’economia borghese di questo secolo è solo una potente allucinazione collettiva…

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2 Commenti


  • paolo regolini

    Sul petrolio proprio non ” ci prendete”, suggerisco la lettura di A.Negri sul manifesto di oggi.
    Lo scontro NON è tra Russia e Arabia Saudita ma tra entrambe e gli USA (far fuori produttori di shale oil e la bolla finanziaria che li tiene in piedi, una mezza bomba atomica in casa americana, devastante).
    Il che fa pensare a possibili divaricazioni tra USA e l’alleato di ferro (di un tempo) saudita (oggi attento, appunto, a Russia e Cina) in medio oriente, con Israele vedovo del recente promesso sposo (in un matrimonio assurdo e forse proibito).
    Pare infatti (e penso sia credibile) che il Generale Soleimani ucciso dai terroristi USA (e Israele) avesse in tasca una lettera del governo iraniano da recapitare a Riad. Che non l’avrebbe probabilmente respinta al mittente. Ma, guarda caso, non è mai arrivata.
    Bin Salman è un assassino ma forse non è stupido.
    Israele potrebbe restare l’unico alleato affidabile degli Usa in Medio oriente. Come dire guerra certa.
    Senza scomodare la geopolitica (che lascio volentieri ai vaniloqui di L.Caracciolo) e le “linee di faglia” che sono ormai il prezzemolo di ogni articolo, è l’inarrestabile procedere dello scontro internazionale tra Stati e potentati economici (imperialismi) emergenti contro una vecchia signora, cui solo è rimasto uno stuolo di guardie del corpo (peraltro e purtroppo ancora ottimamente armate e ben pagate) che non vogliono saperne di trovarsi disoccupate


    • Redazione Contropiano

      Se può consolarti lunedi pomeriggio sulla pagina di Contropianoci sarà proprio un dibattito in diretta con Alberto Negri

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