Lo scontro in genere verte sull’eredità, per captare il più possibile del “lettorato” in una nuova impresa. La “maschera” vela dunque le prese di posizione. Questo intervento, invece, pur tra molti inevitabili “non detto”, ci sembra faccia capire qualcosa di più. Sul merito dello scontro e anche sulla necessità di aprire una nuova pagina nell'”informazione di sinistra”.
Tuttavia Rossanda e Parlato non sono soli. I loro interrogativi sono posti da tempo anche da altri che sono oggi dipendenti del manifesto o collaborano alla sua fattura dopo averci lavorato a tempo pieno per decenni. Nell’ultimo anno, ma anche prima della liquidazione, ogni tentativo di aprire la discussione sul presente e il futuro del giornale, considerata la situazione di rischio e fragilità in cui ci poneva uno stato di crisi ormai continuo, è caduto nel vuoto o, peggio, è stato accolto con insofferenza e talvolta con sospetto. Tanto che si è arrivati a rifiutare la pubblicazione di lettere che ponevano apertamente la questione. Gli stessi Circoli del manifesto possono dare testimonianza di questa sordità.
Ma questa straordinaria «forma della politica», come una volta ci piaceva definire il giornale, da tempo è in drammatico calo di vendite. In un momento storico di ulteriore mutazione globale, in cui l’Italia si trova di nuovo ad affrontare una transizione che ne cambierà i connotati, ha quasi raggiunto un minimo storico, una posizione marginale nel fare opinione che la sua storia non merita. È vero, i giornali di tutto il mondo annaspano in un tracollo senza precedenti, ma ciò non dovrebbe indurre ad accettare passivamente l’esistente o peggio a farsene un alibi. Se siamo arrivati a questo punto le responsabilità sono di tutti e non sono solo della attuale direzione e redazione. Parlarne poteva solo giovarci. Alla direzione però va addebitato il rifiuto di gestire la grave fase aperta dalla liquidazione coatta con la chiarezza e l’apertura necessarie ad affrontare una congiuntura che si preannunciava tragica. La crisi avrebbe potuto essere colta nel suo aspetto di opportunità ad aprire finalmente un confronto, anche con l’esterno, per capire gli errori, ripartire con forza e costruire la possibilità di un futuro diverso e migliore. Saremmo stati certo meno soli. Soprattutto, non era inevitabile lasciarsi dietro una scia di macerie, soprattutto umane. Come di fatto è avvenuto.
Le difficoltà, la cassa integrazione sono diventati alibi per impedire, magari inconsciamente e adducendo a motivo la tempesta che impazza, la formazione di una volontà collettiva. Dentro il processo di sterilizzazione dell’originale democrazia che sempre aveva regolato le relazioni tra di noi, a un certo punto è esplosa una sorta di caccia alle streghe nei confronti delle compagne e dei compagni che, potendo usufruire degli ammortizzatori garantiti dagli ultimi stati di crisi, avevano accettato di andare in pensione o in prepensionamento per ridurre il costo del lavoro. Pensavamo che l’isteria della rottamazione potesse essere lasciata fuori dalla porta del manifesto, ma non è andata così, non ci siamo risparmiati nulla. È difficile, per molti di noi, continuare la normale vita in un collettivo che ti rifiuta e arriva a dire che qualora un «pensionato» (mai avremmo pensato che al manifesto si arrivasse a identificare qualcuno così) venisse trovato davanti a un computer del giornale la federazione della stampa sarebbe stata informata che i non più dipendenti stavano togliendo lavoro ai dipendenti. Questo è già desolante, ma ancor più inaccettabile è che negli ultimi tempi coloro che si definiscono «quelli che fanno il giornale» si siano rifiutati di decidere democraticamente e in modo condiviso persino le modalità di costituzione della nuova, futura cooperativa.
Anche a causa di questa degenerazione, che ha mutato il senso profondo dell’esistenza del giornale al proprio interno, chiedersi oggi «che cos’è il manifesto?» rischia di trasformarsi in uno scontro indecoroso, fasullo, indegno di questa causa e reminiscente dei tempi peggiori delle liti a sinistra. Eppure la questione va finalmente posta e consegnata anche al fuori di noi, ai sostenitori, dei Circoli e non, ai collaboratori, ai lettori. Solo una risposta chiara a questa domanda porterà con sé anche la soluzione di un’altra questione fondamentale: «di chi» sarà il prossimo manifesto, quale potrà essere la forma proprietaria che meglio lo rappresenterà.
Noi pensiamo che il manifesto non potrà essere quello che è oggi. Limitarsi a rappresentare la sinistra plurale condanna alla frammentazione e alla marginalità dalle quali la medesima è afflitta. In discussione non è la prospettiva larga, che nessuno nega. Ma il punto di vista sì. Necessariamente forte e contro corrente. La difficile alfabetizzazione politica dei giovani è più che necessaria, ma richiede ben altra chiarezza riguardo al nostro ruolo, altri linguaggi, altri strumenti sui quali non ci siamo mai neppure interrogati. I nostri migliori collaboratori ci forniscono spunti straordinari di inchiesta che nella fattura del giornale non vengono raccolti. Ci diciamo tutti anti liberisti, ma non prendiamo di petto e non facciamo materia di indagine il problema centrale: perché, se le degenerazioni dell’economia e della finanza mondiale stanno dando ragione alle nostre analisi e previsioni, questa ragione non si è trasformata in una leva di cambiamento politico radicale, a livello istituzionale, nonostante l’azione dei movimenti? Dei partiti purtroppo sappiamo. Invece le soluzioni che si profilano puntano tutte a destra, con diverse ambigue coloriture. Intanto sprofondiamo nella più grave crisi della democrazia che si sia mai vista dopo la guerra mentre l’orologio della storia batte all’indietro e distrugge ogni salvaguardia di quello che Rossanda chiama il «fattore umano».
Siamo divisi e costretti, infine, a presentarci per quello che siamo. Ma non tutto è perduto se almeno si riconosce che l’esistente non è il migliore dei mondi possibile e si avvia un confronto. Quanto allo scopo di questo giornale, nel quale abbiamo vissuto e crediamo ancora, si riassume nell’ultima riga dell’ultimo editoriale di Luigi Pintor «Reinventare la vita, in un’era che ce ne sta privando in forme mai viste». Niente di più e niente di meno.
Angela Pascucci, Loris Campetti, Maurizio Matteuzzi, Guido Ambrosino, Riccardo Chiari, Marco Cinque, Astrit Dakli, Tiziana Ferri, Marina Forti, Galapagos (Roberto Tesi), Francesco Piccioni, Doriana Ricci, Roberto Silvestri
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa
luciano
Ma la “sinistra plurale”,tanto evocata dall’attuale direzione del giornale,non è la stessa che quando era al governo privatizzava e svendeva(regalava), pezzi di industria strategica al solo scopo di indebolire e poi,come s’è visto,cancellare la forza contrattuale dei lavoratori ?E’ in quel passaggio fondamentale che si sono poste le basi del lento regredire del conflitto di classe che ha avuto momenti in cui sembrava che “la fine della storia”sovrastasse ogni legittima ripulsa all’ordine economico/sociale che si stava instaurando.In quel contesto,lo ricordo bene, il Manifesto invece di contribuire alla costruzione di un fronte anticapitalista capace di raccogliere le tante soggettività che abbandonavano il cosiddetto governo “amico”,continuava ad intervistare esponenti di quei governi,dando così legittimità a programmi ferocemente antipopolari.Di più,gli editoriali,quindi la linea politica era tutta incentrata sull’assioma “centrosinistra al governo uguale spazi di agibilità maggiori per le masse”.Come si evince dagli sviluppi seguenti,sono stati proprio quei governi a soffocare e annichilire una spinta alla contestazione del sistema che era ancora viva. Se la direzione attuale ripropone, come sembra , la strategia della non rottura con il cardine principale del montismo rappresentato dal partito di Bersani,allora è auspicabile che il quotidiano fondato da Pintor e Rossanda getti la spugna;non sapremmo che farcene di uno strumento non più utilizzabile dalla classe(se mai lo è stato!).
almanzor
Questa lettera collettiva getta una luce desolante e umanamente squallida sulla vicenda: un homo homini lupus che si ammanta strumentalmente di pretese ‘politiche’.
Ridicole sono le fregole ‘rottamatrici’ della direzione che nascondono solo la voglia di cannibalizzare le vecchie glorie per una, peraltro improbabile, mera sopravvivenza aziendale (sembrano i ‘sopravvissuti delle Ande’ di 40 anni fa …).
Come penoso e gratuito è il paventare discipline da caserma quando ‘grande Pci’, partiti ‘armati’, Nuove Sinistre, autonomie e avanguardie assortite, tutte, ormai, dormono sulla collina.
Che non esistano più forze politiche egemoni (o persone di dalla mente sana che vanno in giro con la verità in tasca) dovrebbe, fugando certi timori, favorire la ricerca di una visione più generale e convincente della realtà.
Purtroppo anche i ‘grandi vecchi’ sono parte del problema: ricordate Rossanda che, tirando le somme di una vita non solo politica, auspica le ‘Brigate Internazionali’ contro Gheddafi? O il recente Parlato che difende Napolitano come baluardo costituzionale? O, infine, il ‘collaboratore’ Asor Rosa che auspica un golpe democratico contro Berlusconi dei Carabinieri? Anche i seniores firmatari sono contrapposti su questioni fondamentali e come loro stessi possano esprimere un ‘punto di vista forte e contro corrente’ rimane un mistero.
Ma alla giusta e comprensibile protesta dei ‘rottamandi’, al richiamo sacrosanto ai ‘contenuti’, difetta, secondo me, la cognizione di quanto i giochi siano ormai fatti. Il Manifesto non deve più ‘limitarsi a rappresentare la sinistra plurale’, essi scrivono. Ma si dovrebbe avere il coraggio di dichiarare che la ‘sinistra plurale’ ha fatto da tempo bancarotta, politica e culturale. Forse questo è ancora più difficile che emanciparsi da finanziamenti pubblici e rimborsi elettorali, ma va fatto perché salvare questo o quell’orticello di per sé non interessa davvero più a nessuno.