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Il consenso a Renzi nell’«ala destra» del vecchio Pci

Dal nostro punto di vista, alcuni concetti andrebbero declinati magari altrimenti, ma nella sostanza l’esposizione e la narrazione di Moltedo sono molto utili. La rottura del “modello socialdemocratico” tosco-emiliano segna la fine di un modo di governare all’insegna del compromesso (e del welfare diffuso) tra classi sociali contrapposte, ma unite dalle convenienze dello “sviluppo produttivo”.
Con la crisi globale, e specificamente europea, quel compromesso diventa impossibile, saltano le “mediazioni sociali” garantite da una percentuale nemmeno immensa di spesa pubblica. Ecco, se una critica bisogna fare a Moltedo, è puramente categoriale. Non sono “i cittadini” tosco-emiliani a chiedere un cambiamento di linea, ma l’imprenditoria piccola e grande prosperata sotto il “modello socialdemocratico”.
Un esempio per tutti? Le coop “rosse” e il loro ruolo nella contrattazione, ormai indistinguibile da quello di Confindustria. In altri termini, si tratta di metter la testa alle “ragioni di classe” di determinate linee politiche, dismettendo le critiche puramente ideologiche (“traditori”, “venduti”, ecc). Questa gente dell’ex Pci rappresenta ormai un diverso “essere sociale” e quindi mette in mostra un’altra “coscienza politica”. Sono borghesi, un tempo socialdemocratici e progressisti. Oggi montiani.

Buona lettura a tutti.

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Il sindaco di Firenze «si è venduto» l’esito delle primarie nel centro Italia a conferma del fatto che «non è di destra», come invece ripete il mantra dei suoi avversari. Già, ma com’è possibile che Matteo Renzi abbia successo nelle regioni rosse e possa trovare in quell’area del paese la spinta per avere anche oggi un buon risultato, addirittura la vittoria?
Secondo il sondaggista Roberto Weber, interpellato da Diritto di Critica, in quelle regioni a lungo governate dalla sinistra «il voto per Renzi è l’espressione di un disagio delle categorie produttive nei confronti della sintesi politica che in quei territori si è prodotta ed è una richiesta di discontinuità». Se è vero che quello che Weber definisce «socialismo appenninico» ha prodotto ricchezza e sviluppo economico, dall’altra parte non ha consentito l’innovazione e il cambiamento che oggi i cittadini toscani, umbri, marchigiani ed emiliani inseguono. Renzi dunque, sostiene Diritto di Critica, «non è un outsider, viene dall’apparato ma, diversamente dagli altri candidati, è l’unico a promuovere la rottura dello schema consociale».
Secondo l’ex-dc toscana Rosy Bindi, se il Pd «non si rende conto, soprattutto nelle regioni cosiddette rosse, che il Pd non è la continuazione del Pci, Pds, Ds, non si va da nessuna parte». A ben vedere, in realtà, il successo di Renzi rientra perfettamente nella continuità politica in quelle regioni, non ne è affatto uno «scardinamento», come sostiene ancora Bindi, e neppure una «rivolta» nei confronti degli apparati. Ci vuole solo un pochino di memoria storica per capirlo: l’allora giovane martinazzoliana Bindi fu iper-renziana, quando, segretaria della Dc in Veneto, ghigliottinò i dinosauri dorotei della regione, Carlo Bernini in primis.
Ai tempi del Pci, la sua versione emiliana – e non ugualmente ma analogamente quelle toscana, umbra e marchigiana – era il Pci «di destra». Il partito, in quelle regioni, era forza di governo, non di opposizione. Era un partito della concretezza, del pragmatismo, del compromesso. Era un partito di potere. Socialdemocratico, quasi un insulto allora, un complimento oggi. Altrove, più distante dalla stanza dei bottoni, il Pci era più «comunista». Ci si è mai chiesti perché solo ora – quando conta molto meno – un esponente del partito emiliano ha un posto di leadership nazionale? Ai tempi d’oro del Pci, le regioni rosse non hanno mai espresso né il segretario generale né leader di spicco nazionale. I gruppi dirigenti a Botteghe oscure erano per lo più costituiti da uomini provenienti da altre regioni. E così il grosso dell’intellettualità comunista e dei mondi fiancheggiatori del Pci, il sindacato innanzitutto. Il Pci emiliano, e in genere centro-italiano, provvedeva ai soldi e ai soldati. Tanti iscritti, sezioni dappertutto, sedi imponenti, case del popolo, cooperative, associazioni ricreative. Era un partito potente, ma non dava la linea, elaborata nella Direzione, al bottegone. Era un partito in sintonia con il segretario, anche perché poi governava in piena libertà città, regioni e province, amministrava cooperative grandi e piccole, imprese e banche, un esteso e denso pezzo di economia italiana, e tutto questo in una parte ricca del paese. Quando Achille Occhetto annunciò la svolta, scelse la Bolognina, storica sezione di Bologna. Perché i vecchi compagni partigiani di quella sezione avrebbero comunque appoggiato il segretario e appartenevano a un mondo politico non ideologico, non di sinistra, che avrebbe sicuramente assecondato quel tipo di scelta. E con Occhetto, successivamente, si schierò abbastanza compattamente il partitone delle regioni rosse.
Alla fine in quelle regioni prevarrà Bersani, perché è lui il segretario. Ma dovesse vincere, o avere un buon risultato, Renzi, non dovremo stupirci, come può stupirsi solo chi confonde la designazione regione rossa con «di sinistra», secondo un abbaglio narrativo che immagina il Pci di governo (e quel che di esso oggi resta) come una specie di Rifondazione comunista. Non lo era allora, quando era ancora il Pci, ancor meno lo è nei giorni nostri.

da “il manifesto”

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