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L’indirizzo di Bianchi: sempre più mercato nella scuola

Durante la prima settimana di scuola, mentre la maggior parte della stampa si interessava solo dei (pochissimi) insegnanti che si oppongono al passaporto vaccinale, il Ministero dell’Istruzione ha diramato l’Atto d’indirizzo politico istituzionale per l’anno 2022, che tuttavia si proietta già sino al 2024.

C’era poco di buono da aspettarsi da tale documento, poiché esso rappresenta un tentativo di mettere in pratica nelle scuole soprattutto quanto contenuto nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) di cui abbiamo già pubblicato su Contropiano una lettura critica.

In effetti, l’Atto d’indirizzo si attiene scrupolosamente a quanto contenuto nel PNRR, delineando otto priorità politiche da perseguire nei prossimi anni, che fanno seguito a un “quadro di riferimento” che potrebbe suscitare ilarità se non fosse in realtà segno della malafede del governo.

Infatti, vi si parla di un rilancio degli investimenti per le istituzioni e l’edilizia scolastica, per la perequazione formativa, per gli alunni disabili. Tutto ciò dopo un’estate in cui il Ministero si è opposto fermamente a un reale potenziamento degli organici del personale scolastico, che avrebbe consentito la riduzione del numero di alunni per classe e un reale potenziamento dell’offerta formativa.

Quanto all’edilizia scolastica ci sembra inutile sprecare carta e inchiostro per descrivere una situazione già troppo nota. Il rilancio degli investimenti citato dal Ministero è in realtà tutto legato al PNRR; tuttavia mai come in questo caso si verifica quanto sia importante decidere a quali obiettivi debbano essere destinati i fondi.

Anzitutto, la parola-chiave dell’atto d’indirizzo è: digitale. Appare chiaro che, secondo l’ideologia del ministro Bianchi, la sola evocazione della tecnologia digitale sia tale da risolvere qualunque problema.

Si comincia con la lotta alla dispersione scolastica (cioè la selezione di classe, n.d.r.), che in Italia è tra le più alte d’Europa che, sostiene il Ministro, è da riportare all’interno degli standard europei, peraltro già alti poiché raggiungono il 10,2%.

Ci si aspetterebbe l’attivazione, allo scopo, di percorsi e insegnamenti individualizzati, l’assunzione di personale dedicato e reali misure di aiuto per chi è in difficoltà (libri, materiale didattico ecc.). Invece il Ministero rimanda tutto a un’istituenda piattaforma di “mentoring, counseling e orientamento professionale”.

Insomma, immaginiamo già migliaia di preadolescenti a rischio abbandono, quasi sempre appartenenti a famiglie in difficoltà, che trovano “sostegno” davanti a un computer collegato a una piattaforma di mentoring…

L’ubriacatura digitale continua in tutte le dieci pagine del documento, vista come soluzione salvifica per studenti e insegnanti. Senza addentrarci in ciascuno dei punti in cui si dispiega l’apologia acritica del digitale, notiamo come le nuove tecnologie non siano mai viste in relazione alle possibilità formative e creative che esse possono comunque offrire, bensì sempre piegate sia alla formazione professionale più o meno immediata, ma comunque legata a colmare il mismatch, cioè lo scarto tra formazione e bisogni delle imprese sia alla verifica e valutazione dell’apprendimento degli studenti e dell’attività didattica degli insegnanti. Questi ultimi, tra l’altro costretti alla formazione in servizio presso una futura “Alta scuola” naturalmente digitale e centralizzata.

Il tutto, sotto l’occhio vigile del Sistema Nazionale di Valutazione, poiché la valutazione di tutto, degli allievi, degli insegnanti, delle scuole, del sistema è un altro dei feticci del Ministero.

Il digitale, nel documento ministeriale, è assimilato di per sé all’innovazione didattica, vale a dire che un computer in classe viene visto comunque come innovativo e per converso non esiste innovazione che sia al di fuori del digitale. Tutto ciò arrivando anche a ledere la libertà d’insegnamento, per esempio quando si indica nel digitale il modo per superare la lezione frontale, ritenuta trasmissiva e superata.

Non siamo certo dei fanatici della lezione frontale, ma nemmeno la demonizziamo ed è normale che stia a ogni insegnante valutare, a seconda delle specifiche situazioni, se e quando utilizzarla. Tra l’altro, l’attacco alla lezione frontale si risolve poche righe dopo e non casualmente, nell’indicazione di lavorare a una didattica per competenze “di tipo collaborativo ed esperienziale”.

Si tratta di un vecchio gioco dei sostenitori della didattica per competenze, volto a contrapporre i loro modelli aziendalisti, proposti come innovativi, alla scuola dei saperi, indicata invece come vecchia e superata.

Sappiamo bene, invece, quale investimento sia stato fatto dalle associazioni industriali, dall’OCSE e dall’Unione Europea per imporre nella scuola la didattica per competenze, funzionale a sottomettere la scuola alle imprevedibili mutazioni del mercato del lavoro, a creare mano d’opera di bassa qualificazione a scapito di una scuola di saperi vasti, formativi e critici.

L’insistenza sul digitale appare ancor più preoccupante se la si pone in relazione con una dichiarazione fatta dal Ministero Bianchi in un’intervista alla Stampa, in cui ha affermato che in alcuni casi si potrà utilizzare ancora la didattica a distanza, ovviamente per fini diversi da quelli dei due ultimi anni scolastici, ma tenendo conto dell’esperienza accumulata in tale periodo.

Non è facile comprendere cosa intenda il Ministro, dato che – se veramente si uscirà dall’emergenza pandemica (cosa purtroppo tutta ancora da dimostrare, viste le inadempienze del governo, per cui molte classi sono già in DAD a pochi giorni dal rientro) – la scuola sarà, finalmente, in presenza e potrà fare a meno dell’ormai famigerata DAD che è stata motivata solo dall’esigenza di salvare il salvabile.

Questo non significa evidentemente non pensare alla possibile creazione, nelle scuole, di archivi di materiali, di banche dati o anche di un uso gestionale della tecnologia, ma ciò evidentemente è da intendersi come supporto e integrazione alla didattica in presenza, fatto che non ha nulla in comune con la DAD.

Tra l’altro, in un documento che punta cosi fortemente sulla trasformazione digitale della scuola, stupisce che non si ponga nemmeno come obiettivo la creazione di una piattaforma digitale pubblica che costituisca un ambiente di lavoro per le scuole alternativo alle varie piattaforme su cui le multinazionali dell’informatica lucrano con abbonamenti e con il commercio dei dati degli utenti.

Nella sua ispirazione generale, tutto l’Atto di indirizzo è un inno al potenziamento dell’entrata e del potere dei privati nella scuola, in accordo con quanto già scritto nel PNRR.

Si conferma l’attenzione prioritaria allo sviluppo degli Istituti Tecnici Superiori, di cui si prevede il raddoppio del numero degli studenti, naturalmente adeguando sempre più la formazione ai bisogni dell’imprenditoria locale dei centri dove si trovano tali istituzioni.

È noto che il sistema degli ITS prevede la presenza delle aziende locali nella governance interna, che si basa su una commistione tra pubblico e privato volta a fornire alle imprese la mano d’opera qualificata di cui ha bisogno. Il modello di gestione territoriale degli istituti scolastici immaginato dal Ministro è quindi sempre quello della compartecipazione di pubblico e privato, purtroppo a tutto vantaggio del secondo, tanto che nell’Atto d’indirizzo si torna sui “Patti territoriali di Comunità”, particolarmente cari a Patrizio Bianchi.

Un modello in cui la scuola – istituzione pubblica – si sottomette ai bisogni del capitalismo locale. Un ruolo ben lontano dalla funzione della scuola postulata nella Costituzione, che è quella di formare il cittadino in modo indipendente ed egualitario, dotato di saperi di base forti e critici e non di competenze dettate dall’industria e di una preparazione al lavoro flessibile e dequalificato.

La commistione tra pubblico e privato si conferma anche nella parte dedicata all’”educazione alla sostenibilità”, dizione che sa già molto di rinuncia a una vera educazione ambientale a favore dello “sviluppo sostenibile” dettato dalle imprese. Infatti, il punto di riferimento del Ministero è il piano di “Rigenerazione scuola” che, anch’esso, compendia la presenza di pubblico e privato.

Una situazione che già in passato si è rivelata paradossale, poiché a gestire progetti di “sostenibilità ambientale” sono state imprese la cui produzione è di per sé “insostenibile” (come per esempio certe case automobilistiche).

L’Atto di indirizzo politico-istituzionale è un documento da prendere sul serio, poiché, come abbiamo scritto, è la traduzione concreta, nelle scuole, di quanto previsto nel PNRR.

Avevamo già scritto su Contropiano che i fondi del PNRR non sono un gentile regalo dell’UE, ma sono un credito concesso a condizioni precise.

Per quanto riguarda la scuola, le condizioni sono chiare: aziendalizzazione e privatizzazione, secondo le direttive europee e i desideri imprenditoriali. Il documento siglato pochi giorni fa dal Ministro Bianchi segue questa linea della UE, aggiungendo, per quanto riguarda il personale scolastico, ma a ricaduta anche per gli studenti, un tono marcatamente autoritario sui metodi didattici, sugli obiettivi formativi, sulla valutazione dei singoli e delle scuole.

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