“Stracciare”, “Distruggere” vergava in rosso Ben, forse più perché ossessionato dal non rivelare ai posteri solitudine e cupio dissolvi che nell’intento di celare l’intimo d’una relazione nota al mondo. Era un ordine che sapeva di supplica. Claretta, l’amante favorita, la piccola italiana diventata primadonna disobbediva, divisa a metà fra l’amore per un idealizzato duce, che stentava a riconoscere nei lamenti di cui erano impregnate le missive, e un desiderio di non restare soltanto la giovane dei piaceri privati e celati. E’ grazie al piccolo tradimento di quella volontà che i discorsi sul grande tradimento dell’Italia fascista raccolti in 318 lettere scambiate dalla coppia fra l’ottobre 1943 e l’aprile ‘45 hanno oltrepassato la tragica fine dei due. Le carte mai distrutte, raccolte nel Fondo Petacci, finite nell’Archivio di Stato e secretate per settant’anni sono state offerte alla valutazione di tre storici (Canali, De Luna, Gentile) che dedicano da decenni i loro studi all’Italia mussoliniana. RaiTre ne ha fatto una serata di cultura e spettacolo con la mirabile lettura dei testi degli attori Placido e Sansa quali voci degli amanti. Nessuna spettacolarizzazione del privato, anzi, perché di privato, al di là di qualche ovvio “ti amo”, le missive poco contengono.
Di personale sì. Soprattutto della personalizzazione, peraltro notissima, che come dittatore Mussolini faceva della nazione e della storia. Nulla di nuovo, la Storia con la maiuscola gli aveva anteposto tanti “cesari” e lo stesso Hitler, alleato disprezzato e temuto, da tempo lo superava nel paranoico soggettivismo. Così il Mussolini del dopo 25 luglio è come un pugile suonato e avvilito. Non comprende i tradimenti dei gerarchi che lo defenestrano, l’irriconoscenza del popolo, la volubilità della gente di Roma “massa ingrata” che si fa gioco delle sue effigia. Come il Nerone di Petrolini abituato al ‘bene-bravo’ il duce resta basito per gli eventi e vomita livore contro gli omuncoli (Badoglio, Vittorio Emanuele) che l’hanno liquidato come un politicuccio qualsiasi. S’avvilisce perché è solo. Solo e prigioniero dei Carabinieri sul Gran Sasso e dei parà tedeschi che lo “liberano” avviandolo alla sanguinosa recita dei diciannove mesi della Repubblica Sociale. Alla quale si presta pur cadaverico. Il 18 settembre 1943 parla da Radio Monaco con una voce dimessa. Irriconoscibile. I filmati ne mostrano il volto emaciato. Finisce a “governare” nella Rocca delle Caminate contornato da uomini che si chiamano Biggini, Mezzasoma, Barracu. Nullità che lo rendono ancor più solo.
E’ grazie a questa recita che la Wehrmacht occupa l’Italia e nella dimensione privata gli restituisce Claretta ch’era stata imprigionata con la famiglia. Lei finisce a Villa Fiordaliso sulle decadenti sponde di Gardone, e come in un romanzo dannunziano, i due rinnovano incontri e scambi grafici e telefonici. Nei quali la donna mostra determinazione, cerca di fomentare un ritorno che a Mussolini appare impossibile. E’ in base a queste convinzioni che arriva il verdetto del processo di Verona, la Petacci è durissima e scrive “Solo il sangue può lavare l’onta” “Ciano: vile, sudicio, interessato e falso” “Edda degna compagna delle trame del marito” “Ben, oggi chi ha mancato deve pagare” condito con un “Ti amo come uomo e come capo. O oggi o mai più”. Il fantoccio Mussolini segue lei come segue il Füreher, pur assillato dal mito della giovinezza sente ormai chiarissimo il “crepuscolo della vita”. Non solo quella proposta dagli anni e dalla malattia ma la constatazione che, dopo lo straniamento dei mesi fra luglio e ottobre 1943, sia impossibile attuare una rinascita del fascismo. Alle chiamate di leva risponde meno della metà della gioventù italiaca e a nulla serve la minaccia della pena di morte per i renitenti (decreto 18 febbraio ’44). I ragazzi vanno in montagna o si nascondono. Impotenza e cupa disperazione traspaiono dalle lettere del duce che mareggiato scrive: “la mia autorità è stata annullata” e lei, che pure cerca di spronarlo, deve riconoscere “il tuo prestigio è a zero”. Nonostante i viaggi a Monaco e l’adunata (l’ultima) di Milano (16 dicembre 1944).
“Dove andrò? dove dovrò andare?” si chiede Mussolini mentre rivela d’aver sognato di volare “lieve come una piuma” sembrando assai più elegiaco dell’apparizione al Lirico (teatro) che gli ridà voce senza impedirgli di dirsi “Io mi odio, odio questo vecchio personaggio cadavere…” Attore di se stesso prima del si salvi chi può. E mentre non sa tacere odio “quei cani dei bolscevichi avanzano” e invidia verso altri che gli eventi premiano coi fatti – “Stalin vi è riuscito, io no” chiosa parlando d’un popolo eroico e combattente – già due mesi prima dell’aprile attende le sorti del destino. In quel carteggio il duce non nasconde ciò che per decenni il revanchismo nostalgico ha blaterato: non solo la favola del sostegno popolare alla Repubblica Sociale ma una sua presunta azione politica, sociale e militare. Nulla, non ci fu nulla di tutto questo. Parola di Mussolini che dopo poche settimane dalla creazione del governo di Salò si sente già stanco di essere un fantoccio in mano al fanatismo covato in seno per un ventennio. Nonostante quel che sostengono storiografia e letteratura negazioniste il duce sa di essere un cadavere vivente, lo ripete con fare ossessivo in quegli scritti suo testamento ed epitaffio.
Il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra il comandante Valerio gli offrì l’uscita di scena più decorosa.
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