Molti attivisti, on-line e non, suggeriscono che l’odiatissima Amin al-Dawla (letteralmente: sicurezza di stato, polizia segreta egiziana) sia ancora saldamente al potere e i comandanti dell’esercito non abbiano alcuna intenzione di smantellarla, come chiesto invece dai tantissimi egiziani mobilitati.
Il Consiglio Militare -alla guida di questo periodo di transizione- “non ha ancora sollevato lo statuto di emergenza (in forze dal 1981) e non ha liberato tutti i prigionieri politici. Senza sciogliere questi due punti, la possibilità di ricadere nelle mani del regime che ha gestito l’Egitto in questi anni è sempre dietro l’angolo” – dichiara Azza Matar di Arab Network for Human Rights Information (ANHRI).
La settimana egiziana ha visto almeno tre momenti intensi di violenza: l’8 marzo, contro le donne che manifestavano a Tahrir e durante gli scontri nel quartiere di Menshiyat Nasr nella zona di Moqattam, e il giorno successivo, quando militari e, probabilmente, poliziotti in borghese e baltaghiyyah (persone assoldate per creare confusione e istigare violenza) hanno smantellato le tende dei manifestanti ancora rimasti ad occupare il giardino della piazza centrale del Cairo.
Mercoledì, chiunque sia stato sorpreso a riprendere o fotografare la scena è stato condotto all’interno del recinto del Museo Egizio. Lì si è visto requisire, cancellare o distruggere la memoria della macchina fotografica. I presenti sul posto hanno assistito ad una scena difficilmente decifrabile, in linea con questo nuovo Egitto ancora sottocontrollo dell’esercito, che si presenta come un quadro sempre più complesso da interpretare.
Testimoni hanno parlato di militari e squadre di violenti che demolivano tende e travolgevano tutto quello che trovavano sul loro cammino. Difficile, però, distinguere tra i temuti baltaghiyyah, i poliziotti in borghese e i regolari cittadini che si sono rivoltati contro gli occupanti di Tahrir. Molti giovani attivisti sono stati trascinati verso l’area del Museo Egizio. Anche in questo caso, i militari hanno dichiarato di aver isolato solo i baltaghiyyah armati di bastoni di legno e ferro che istigavano allaviolenza. Dato alquanto improbabile, visto che anche molti giovani manifestanti e attivisti come Rami Essam e Ali Subhi sono stati trascinati dentro il giardino del Museo e barbaramente torturati.
Alcuni degli arrestati hanno confermato di aver visto nello spiazzo anti-stante la palazzina rossa del Museo più di cento persone, stese a terra, picchiate con bastoni, taser elettrici e frustati con tubi di plastica. Il numero dei trattenuti dovrebbe ammontare a 173 uomini e 17 donne. Immediata è arrivata la condanna di Amnesty International: le torture di mercoledì pomeriggio sono inaccettabili.
Rami Essam, rilasciato il giorno dopo, ha raccontato la sua storia. Conosciuto dal popolo di Tahrir per la canzone che ha animato la protesta prima delle dimissioni di Mubarak, per lui, il passo da cantante della rivoluzione a detenuto criminalizzatoè stato breve. Arrestato assieme ad altri attivisti è stato picchiato brutalmente dall’esercito.
All’ingiustizia si aggiunge l’ansia del nuovo decreto preparato dal governo Sharaf che inventa il crimine di baltaghiyyah. I colpevoli per cui viene dimostrata l’aggravante di omicidio rischiano fino alla pena di morte. Un bel problema per ONG e gruppi volontari di avvocati come ANHRI, dato che in occasioni come quella di mercoledì l’esercito ha fatto poche distinzioni tra criminali e attivisti. Il rischio è quello di una criminalizzazione indiscriminata della protesta e una battuta di arresto per quanti credono che la rivoluzione sia appena iniziata e il processo di cambiamento sia ancora lunghissimo. E’ già successo in queste settimane che manifestanti venissero arrestati e condannati da un tribunale militare. Come nel caso di Amr el-Beheiry, fermato il 26 febbraio davanti al Parlamento egiziano, durante un sit-in prolungatosi oltre l’ora del coprifuoco, e condannato per direttissima il primo marzo a cinque anni di prigione. “Basta aprire il giornale e ogni giorno sono riportati casi e casi di persone condannate secondo rito militare ad anni di prigione. Le imputazioni sono quasi sempre crimini minori -vetrine rotte, danni- apparentemente commessi durante i giorni di protesta. Queste persone hanno diritto ad un processo civile e i militari stanno abusando del loro potere”, spiega Azza Matar.
Sale quindi la preoccupazione per quanti, da mercoledì, non sono ancora stati rilasciati e i cui fascicoli sono, al momento, inaccessibili agli avvocati, come il ventitreenne Ali Subhi. Il luogo dove sono trattenuti non è ancora noto e rischiano di essere processati per il crimine di baltaghiyyah. Subhi, giovane attore per una compagnia di teatro di strada, ha partecipato alla protesta fin dall’inizio. Chi è passato da Tahrir durante i diciotto giorni di occupazione permanente, quelli che hanno portato alla caduta di Mubarak, probabilmente lo ha visto esibirsi sui palchi improvvisati allestiti nella piazza. “Ali Subhi non è un baltaghiyyah”, scrivono i cyber-attivisti in qualunque social forum disponibile, non può essere accusato e processato come tale da un tribunale militare.
Intanto va avanti la protesta della comunità cristiana davanti alla sede della radio e televisione egiziana (area nota come Mespero) dopo l’incendio della chiesa di Atfeeh, nella periferia del Cairo, e gli scontri di martedì sulla collina di Muqattam, che hanno portato alla morte di 13 persone tra cristiani e musulmani. Ieri, facendo un giro in Tahrir e nella zona di Mespero era difficile capire l’umore della gente. Se alcuni incitavano l’esercito con il solito slogan “al-sha’ab wa al-gheish yid wahda” (il popolo e l’esercito mano nella mano) altri fischiavano la presenza militare, come è successo durante il funerale delle vittime degli scontri di mercoledì nella chiesa di Muqattam. Testimoni presenti durante gli scontri hanno indicato l’esercito come colpevole delle morti.
La canzone di Rami Essam diceva: “kullina, yid wahda talabna hagha wahda, irhal” (tutti insieme fianco a fianco, chiediamo una cosa sola, vattene –riferito a Hosni Mubarak). Ricostruire il paese ed avviarlo ad un processo veramente democratico, come prevedibile, sta aprendo molti più interrogativi ed istanze all’interno di una società che non ha mai goduto di un vero spazio di discussione politica libera. La presenza militare, però, al momento, sembra solo ostacolare la crescita di questo dibattito.
* giornalista, vive e lavora al Cairo
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