La stretta di mano fra il premier turco Erdoğan e il recluso di ferro Öcalan, capo storico della guerriglia kurda rinchiuso dal 1999 nell’isola-prigione İmralı nel Mar di Marmara, è assolutamente ipotetica. Certo la notizia di una riapertura ai dialoghi interrotti nel luglio 2011, cui seguì un crescendo di scontri sanguinosissimi considerati uno dei momenti più aspri di 28 anni di conflitto interno, sta facendo notizia in patria e all’estero. Il primo ministro ne ha riparlato ufficialmente in un’intervista televisiva e gli osservatori monitorano anche le critiche che di recente il leader del Pkk ha rivolto ai compagni definendo “improvvide” (la fonte è il fratello Mehmet che gli ha fatto visita) le ultime azioni da loro attuate. La reprimenda può aprire spaccature nell’organizzazione perché l’attuale gruppo dirigente potrebbe non riconoscersi più nell’antica leadership. Chi parla dopo un lungo silenzio è un Öcalan ravveduto oppure realista o sotto pressione? L’attuale ricerca d’una via di pacificazione interessa soprattutto a Erdoğan il cui carisma, secondo taluni sondaggi, sembra in flessione. Per la tornata presidenziale del 2014 gli elettori del Partito della Giustizia e dello Sviluppo interrogati da sondaggisti gli preferiscono l’attuale Capo di Stato Gül. Per un politico attentissimo alla personale carriera qual è Erdoğan poter spendere a suo favore un accordo che risolva, o perlomeno tamponi, il lacerante conflitto con l’etnia kurda continua a rappresentare un obiettivo primario. Anche perché sul tasto della sicurezza nazionale battono le principali forze d’opposizione: repubblicani e nazionalisti.
Eppure quattro anni fa quella minoranza aveva aperto un confronto col sistema edoğaniano con più d’una sua componente politica, dal Pkk al partito legale Bdp. Certo per le province del sud-est, dove si concentra la popolazione kurda, si parlava di autonomia regionale non d’indipendenza comunque disponibilità di accordi su insegnamento della lingua e rappresentatività amministrativa costituivano accenti di disponibilità governativa rispetto alle storiche chiusure del kemalismo. Nel 2010 erano anche in corso colloqui segreti fra Öcalan e Fidan, capo supremo del Mit (l’Intelligence turca) con lo scopo di raggiungere accordi con riconoscimenti politici per i kurdi in cambio della cessazione della lotta armata. Ma non se ne fece nulla. Fra l’altro alcune minacce d’arresto e procedimenti giudiziari subìti da neo eletti deputati del Partito della Pace e della Democrazia, incrinarono ancor più le cose facendo scivolare la situazione nella spirale di attentati, repressione e azioni indiscriminate delle Forze Armate con uccisioni di popolazione civile. La più clamorosa, che coinvolge i comandi dei Servizi e dell’Aeronautica, s’è verificata a Uludere, uno dei distretti della provincia di Şırnak sul confine iracheno. Ritessere le fila dell’annoso problema trovandone un’uscita anche parziale vuole dire porre fine allo stillicidio di morte che conta più di 40.000 vittime, non solo fra chi imbraccia le armi. Perciò Erdoğan ci rimette la faccia e spende la sua autorevolezza, senza mancare di polemizzare con quei Paesi dell’Unione Europea che soffiano su fuoco guerrigliero kurdo, permettendo ai rifugiati locali di raccogliere fondi (25 milioni di dollari in tre anni) per finanziare la lotta armata.
Nei confronti dell’Ue il premier turco gioca sul doppio terreno di lusinghe e sferzate. Nella crisi che avviluppa il governo di Damasco sa quanto peso ha il suo Paese nel sostenere finanziariamente, militarmente e logisticamente il cosiddetto Consiglio Nazionale Siriano e le speranze occidentali che il regime di Asad venga abbattuto perciò può alzare la voce sulla questione kurda senza imbarazzarsi su differenti pesi e misure adottati. Ma egualmente prova a risolversi il problema in casa per rilanciarsi quale campione di sicurezza e compattezza nazionale. Accanto ai diritti delle minoranze (non solo quella kurda) altri nodi con cui deve fare i conti si chiamano libertà politica, civile e di stampa, fortemente lamentate dagli oppositori specie quelli marchiati come “terroristi”. Come gli ricorda più d’un critico su questo Erdoğan dovrebbe fare fatti, non più solo l’elenco dei buoni propositi.
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