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Francia. Il governo impone la sua finanziaria a dispetto del Parlamento

Mercoledì 19 ottobre, la prima ministra francese Élisabeth Borne ha deciso di ricorre al famigerato “articolo 49.3” per imporre di fatto il passaggio alla Assemblée Nationale della prima parte del progetto di “Loi de finances” per il 2023. Agli applausi dei deputati macronisti ha fatto da contraltare la grande riprovazione dell’opposizione della NUPES.

Infatti, impegnando la “responsabilità del governo” di fronte a tutto l’emiciclo, l’articolo 49.3 della Costituzione consente l’adozione di una legge senza votazione da parte dei deputati, fatto salvo il caso in cui non venga depositata nel termine di 24 ore una mozione di sfiducia (“motion de censure”, in francese).

Il macronismo sta diventando autoritarismo”, ha commentato Mathilde Panot, presidentessa del gruppo de La France insoumise, annunciato che la NUPES depositerà una mozione di sfiducia contro il governo.

Il Rassemblement Nationale (RN) di Marine Le Pen invece prende tempo, ma potrebbe presentare una mozione contro la stessa “minoranza di governo” che, a seguito delle elezioni legislative, aveva deciso di sostenere attraverso la sua “opposizione responsabile”.

Nella realtà dei fatti e delle votazioni sui numerosi emendamenti presentati, il RN si è perfettamente allineato alle politiche neoliberiste del governo: no all’aumento dello SMIC (il salario minimo intercategoriale), no alla reintroduzione della Impôt de solidarité sur la fortune (ISF) – abolita da Macron all’inizio del suo primo quinquennio – no alla tassazione degli extraprofitti per le multinazionali che speculano sulla crisi energetica, economica e sanitaria.

Come aveva detto Jean-Luc Mélenchon: “Macron è il sistema e Le Pen la sua assicurazione sulla vita”.

La prima parte della “Loi de finances” autorizza la riscossione delle imposte, accerta le entrate, fissa i tetti di spesa e stabilisce i dati generali del bilancio, mentre la seconda – che sarà esaminata a partire dal 27 ottobre – stabilisce gli stanziamenti per ciascuna missione dello Stato e il tetto di spesa per ogni ministero.

Élisabeth Borne ha giustificato questa decisione adducendo alla necessità di rispettare le scadenze previste e sottolineando che “le opposizioni hanno tutte ribadito la loro volontà di respingere il testo”. Insomma, una “tagliola” parlamentare che si abbatte pesantemente sugli spazi (minimi) del dibattito parlamentare, facendo cadere anche l’ultimo velo di ipocrisia occidentale sul “funzionamento democratico delle istituzioni”.

Come se non bastasse, nel testo sottoposto alla procedura 49.3, il governo non manterrà un certo numero di emendamenti che sono stati comunque votati dai deputati. Dopo aver incassato una serie di sconfitte in questa settimana di dibattiti accesi e votazioni notturne, il governo “prende la palla e se ne va”, cambiando pure il risultato della partita che stava giocando…

Fuor di metafora calcistica, Élisabeth Borne ha deciso di attuare un vero e proprio “colpo di forza antidemocratico unito a disprezzo” – per usare le parole del deputato insoumis Éric Coquerel – e di mantenere circa un centinaio di emendamenti (sui 3.400 totali) presentati, integrando quelli della cosiddetta “maggioranza” non ancora votati e cancellano quelli dell’opposizione.

Ad esempio, l’emendamento sulla tassazione dei super-dividendi, votato qualche giorno fa e adottato grazie all’astensionismo del gruppo di Horizons (dell’ex primo ministro Edouard Philippe), ai voti del gruppo Modem e persino di 19 deputati macronisti, non è stato incluso nel testo del governo.

L’emendamento prevedeva un leggero aumento – dal 30% al 35% – dell’imposta sui super-dividendi distribuiti in società con un fatturato superiore a 750 milioni di euro. Il ministro dell’Economia, Bruno Le Marie, l’aveva giudicato “profondamente ingiusto” perché, a suo avviso, penalizzerebbe troppo le imprese francesi.

In sintesi, gli emendamenti “accettati”, rispetto alla versione iniziale, sono in grandissima parte quelli del gruppo Renaissance (la versione 2.0 de La République En Marche di Macron) e quelli depositati dal governo stesso, per una cifra complessiva di 700 milioni di euro di spesa supplementare e non un centesimo di più che potrebbe “penalizzare l’attrattività della Francia”.

Il testo dovrebbe a questo punto restare nel limite del 5% di deficit previsto per il 2023, come desiderava il governo. Ora passerà al Senato che lo analizzerà a partire dal prossimo 14 novembre, per poi tornare ad inizio dicembre alla Assemblée Nationale dove non è escluso un nuovo ricorso all’articolo 49.3 per la seconda lettura.

Dopo l’annuncio del portavoce del governo Oliver Véran, ieri Élisabeth Borne ha sfoderato nuovamente l’articolo 49.3 anche sul progetto di legge sul finanziamento dell’assistenza sociale (la “Sécurité Sociale”). “Avete rifiutato la prima parte del testo e, soprattutto, avete distorto la seconda parte; non possiamo correre il rischio di un nuovo rifiuto o di un testo nuovamente distorto”, ha dichiarato di fronte ai deputati.

Se dal un lato è previsto un forte calo del deficit (a 6,8 miliardi nel 2023 rispetto ai 17,8 di quest’anno), a causa della diminuzione delle spese e dei rimborsi legati al Covid nel ramo sanitario, il governo non è riuscito ad introdurre un emendamento per la riforma del sistema pensionistico.

La riforma delle pensioni di Macron, richiesta dalla Commissione europea, resta per il momento al palo, sia per le debolezze interne alla minoranza di governo che per il carattere altamente impopolare di questa misura. Proprio su questa riforma, il governo allora guidato da Edouard Philippe aveva annunciato l’uso dell’articolo 49.3 scatenando una risposta sociale immediata, scattata la sera stessa.

Il sistema istituzionale della “Quinta Repubblica” è da tempo al capolinea, incapace di far fronte alle sue stesse storture strutturali, mentre continua ad acuirsi la profonda crisi di legittimità di Macron (e di tutte le classi dirigenti europee), sempre più in difficoltà nel garantire la tenuta di quella governance politica tanto cara a Bruxelles.

In questo contesto, la “Macronie” si conferma essere un intreccio micidiale di austerità neoliberista e autoritarismo antidemocratico.

Tra lo sciopero dei lavoratori del petrolchimico per l’aumento dei salari che continua ad andare avanti nelle raffinerie e nei depositi di Total nonostante le precettazioni, le mobilitazioni che si estendono a numerosi altri settori (trasporti, istruzione, centrali nucleari, porti, ecc.) intenzionati ad “andare oltre” la giornata di sciopero del 18 ottobre e la rabbia sociale che cresce contro il carovita e un sistema in crisi strutturale, il Presidente Macron affila le sue armi per la guerra politica, economica e sociale contro le classi popolari.

E in guerra non c’è spazio per il “dialogo sociale” né per “compromessi”.

È necessario rispedire al mittente questo attacco ed organizzare la mobilitazione generale, senza attendere oltre.

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